«Ogni suicidio in carcere e un fardello ma lo Stato non abbandona nessuno», queste le parole del Ministro della Giustizia Carlo Nordio in visita al carcere Lorusso-Cotugno di Torino, dove venerdì, a distanza di poche ore, una donna nigeriana si è lasciata morire di fame e una donna italiana si è impiccata. Le recenti e tragiche morti in carcere (l’ultimo, il 47esimo, a Rossano, Cosenza) riaccendono la questione dei suicidi in carcere, ma ancora più della situazione carceraria in Italia. Il dibattito politico si riaccende e si invocano le carenze strutturali, la necessità di interventi straordinari del governo e delle regioni attraverso un mirato piano di assunzioni, un potenziamento della sanità penitenziaria nonché del personale delle forze dell’ordine all’interno delle strutture carcerarie.Con il noto psicoanalista Maurizio Montanari cerchiamo di leggere dal suo punto di vista gli episodi accaduti in questi giorni.
Dottor Montanari, prendiamo la donna nigeriana morta di fame e sete, cosa è accaduto ? Sciopero della fame, semplice imperscrutabilità di ciò che può accadere o risultato di carenze ben più gravi su cui riflettere e per i quali agire?
E’ vero che in carcere si muoia per dimenticanza, relegati ad oggetti o per violenza. In entrambi i casi, questo è il risultato di una riduzione a ‘cosa’, quasi disumanizzata, che può essere o gettata, o dimenticata. Ricordiamo che, come insegna Focault, lo Stato raggiunge un livello di civiltà accettabile quando il carcere diventa luogo di salvaguardia dell’incolumità sociale da azioni criminali, laddove cessi di essere sadicamente e inutilmente punitivo. Il Ministro si è premurato di dire che ‘non era uno sciopero della fame usato come protesta nei confronti dello Stato’. Questo non deve bastare. La psicoanalisi insegna che il corpo, nella sua sofferenza, non mente mai e cerca di veicolare un disagio laddove la parola viene zittita. Susan era una madre alla quale avevano tolto il figlio ( di per sé questo costituisce già una pena accessoria a qualsiasi reato ella abbia commesso), una separazione alla quale pare non abbia retto, un bambino che sino all’ultimo ha chiesto di rivedere. Ella ha mostrato quello che era a sua disposizione, il corpo, per veicolare la parola, il grido che non è stato ascoltato dall’istituzione. Non era uno sciopero della fame alla Bobby Sands, non immolava il corpo come protesta per una causa superiore. Susan John lascia il corpo deperire per mostrare l’indicibile dolore di una donna orbata del figlio, mettendo in atto azioni tipiche di chi è privo di parola o altri mezzi per far giungere all’altro la sua richiesta.
La sua patologia psichiatrica? Nulla sappiamo, non è escluso che fosse in realtà concausata od aggravata dalla stessa privazione del figlio. Sappiamo che l’utilizzo dello psicofarmaco in carcere è assai diffuso e, a detta degli operatori, spesso chiesto per poter lenire uno stato di attesa e frustrazione nel tempo letali. Detto questo, la patologia che porta un corpo a lasciarsi morire di fame si chiama anoressia e può essere curata e trattata laddove riconosciuta. Ovviamente stiamo andando per ipotesi, dunque si corre il rischio di essere generici. Certo è, e lo dico da clinico, che qualunque fosse la sua patologia pregressa, questo non l’ha messa al riparo dall’indicibile dolore della privazione del figlio Quello che viene fuori è che sia stata dimenticata dallo Stato, lasciata morire di fame, come un oggetto relegato in un angolo del mondo. Oggetti, cose dimenticate, maternità schiacciate da uno Stato indifferente alle voci di uomini e donne che vivono in zone d’ombra, fuori e dentro al carcere.
Dottore, lei per mestiere conosce il lato oscuro delle vicende, ma non c’è nulla di più oscuro di quello che sta alla luce del sole… Delle donne del carcere sabaudo una si è spenta, probabilmente per un’infezione subentrata allo stato fisico già deteriorato, in una delle due camere del reparto ATSM, acronimo che sta per “Articolazione tutela salute mentale” meglio conosciuto come “piccolo manicomio”, l’altra suicida dopo avere già provato altre volte a togliersi la vita. Da professionista, quale è la ricetta suggerita per la tutela della sanità mentale e fisica in carcere ?
Questa è una vexata quaestio. Il carcere è, in quanto luogo di detenzione, un elemento che accresce, amplifica e tende a esasperare stati di disagio mentale e psicofisico, portando a vacillare anche menti di per sè equilibrate. Non posso certo, qua, estrapolare facili soluzioni. Quello che posso dire è che nel carcere la presenza di operatori della salute mentale è assolutamente sottostimata, e bene sarebbe l’inserimento di figure che siano in grado di praticare psicoterapia riabilitativa, senza lasciare al solo farmaco la soluzione di ogni problema. Oltre alla drammatica situazione dei prigionieri ( 47 suicidi) lo Stato deve essere in grado di salvaguardare anche al salute mentale degli operatori interni, sottoposti spesso senza la giusta preparazione a scene di dolore e atti suicidari che in poco tempo possono determinare quello che noi clinici chiamiamo la sindrome da stress post traumatico, vedendoli sempre esposti in prima fila a situazioni che non possono e non riescono a gestire, e che spesso si inietta nelle loro menti determinando poi, nella loro vita familiare, conseguenze che noi clinici purtroppo conosciamo bene.
C’è una differenza sostanziale tra tutela dell’ordine pubblico e tutela della sanità dell’individuo e della collettività ?
L’ordine pubblico, o meglio l’incolumità sociale, passa a volte purtroppo anche per la privazione della libertà, e si illude chi preconizza uno ‘Stato senza carcere’ . Ma, e qua sta il nocciolo della questione, la prigione deve essere un luogo umanizzato e reso armonico con la città, non l’isola di ‘Fuga da Alcatraz’. Dico questo dopo aver stigmatizzato duramente le tremende condizioni carcerarie che affliggono i detenuti, minando la loro salute mentale. Il carcere deve essere, anche per il criminale piu’ incallito, un luogo di tutela reciproca, e non un antro vendicativo disumanizzante, A fianco di queste mie osservazioni, mi sono piu’ volte speso nel sostenere che il carcere è a volte uno strumento che oltre ad assolvere a queste funzioni di recupero e riabilitazione, deve garantire incolumità sociale nei confronti di soggetti non redimibili, coloro i quali fanno del delinquere la sola possibilità di vita esperita, consapevoli di non poter e non volere essere ‘redenti’, in quanto appartenenti a strutture sociali che vedono nello Stato un nemico, sino alla fine ( a proposito di 41bis e sull’opportunità di mantenerlo). Il carcere deve essere quindi strumento di riabilitazione e riflessione, di reinserimento sociale. Esso non può e non deve essere un luogo sadico, fatiscente, trascurato che riduce i prigionieri a corpi in preda alla disperazione, come nel caso delle due donne che oggi non sono più tra noi.
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