Ad Alabuga, centro industriale russo nella parte nord-occidentale del Tatarstan, si sta consumando una tragedia silenziosa, frutto di abili inganni e di uno sfruttamento crudele. Circa 200 giovani donne provenienti da Paesi africani e asiatici, tra cui Uganda, Kenya, Sudan del Sud e Nigeria, sono bloccate in un ciclo di lavoro estenuante, costrette a montare droni militari iraniani Shahed, strumenti di distruzione impiegati negli attacchi russi contro l’Ucraina.
L’Associated Press ha svelato l’esistenza di questa fabbrica grazie all’analisi di immagini satellitari, rivelando un sistema di sfruttamento di giovani donne costrette a lavorare in condizioni precarie e sotto sorveglianza continua. La struttura, parte di un accordo da 1,7 miliardi di dollari tra Russia e Iran secondo il Washington Institute for Science and International Security, è diventata un centro cruciale per la produzione di droni, con una previsione di 6.000 unità all’anno entro il 2025.
La zona industriale di Alabuga, a circa 1.000 chilometri a est di Mosca, è stata trasformata in un centro nevralgico per la produzione bellica russa. Ma ciò che rende questa storia ancora più inquietante è la crudele discrepanza tra la realtà e le aspettative delle lavoratrici. Molte di loro, attratte da promesse di una vita migliore, avevano aderito al programma “Alabuga Start”, descritto in termini entusiastici sul sito ufficiale del progetto (https://startworld.alabuga.ru/), dove si parla di una combinazione tra formazione professionale e opportunità lavorative. I video promozionali, diffusi anche sui social media, mostrano queste donne mentre visitano luoghi turistici in Tatarstan, praticano sport e lavorano in ambienti che sembrano sicuri e gratificanti.
La realtà raccontata dalle lavoratrici è ben diversa da quanto promesso. Una di loro ha dichiarato all’Associated Press: “Ci avevano detto che si trattava di un programma di formazione, ma ci siamo trovate a maneggiare sostanze chimiche che ci bruciavano la pelle”. L’esposizione continua a materiali caustici, utilizzati per rivestire i droni, ha causato irritazioni e segni permanenti sulla pelle, evidenziando la mancanza di protezioni adeguate. Le lavoratrici sono costantemente sorvegliate e non possono comunicare liberamente.
Il programma di reclutamento prometteva salari fino a 700 dollari al mese, ma la realtà è stata ben diversa. “Ci hanno promesso soldi che non abbiamo mai visto”, ha raccontato una di loro. Molte donne hanno subito detrazioni per volo, alloggio e spese mediche, riducendo i loro guadagni a somme minime, con alcune riuscendo a inviare a casa appena 150 dollari o addirittura nulla, a causa delle sanzioni contro le banche russe. Queste condizioni si sommano a turni di 12 ore, privi di diritti fondamentali e sotto costante controllo.
Le testimonianze raccolte dall’AP rivelano una situazione drammatica: “Veniamo trattate come schiave”, ha dichiarato una lavoratrice, riferendo che i loro messaggi sono monitorati e che non possono portare telefoni in fabbrica. La questione è stata finalmente riconosciuta a livello internazionale, con l’ONU che ha affermato che “le azioni della Russia potrebbero configurarsi come tratta di esseri umani”. Ravina Shamdasani, portavoce dell’Ufficio delle Nazioni Unite per i diritti umani, ha evidenziato il reclutamento ingannevole e lo sfruttamento come violazioni evidenti dei diritti umani.
Nonostante le preoccupazioni espresse da Uganda e altri paesi africani riguardo all’età delle giovani coinvolte, i governi dei paesi d’origine delle lavoratrici non hanno ancora preso misure concrete per proteggerle. Secondo il Washington Institute, questo schema di reclutamento è parte della strategia russa per sopperire alla carenza di manodopera, aggravata dal conflitto in Ucraina. Oltre alle lavoratrici straniere, la Russia ha adottato misure drastiche come l’arruolamento di prigionieri in cambio di compensi, sfruttando ogni risorsa disponibile per sostenere l’industria bellica.
La situazione di queste donne, arruolate per lavorare in una fabbrica di armi in un paese lontano, è il simbolo di una guerra moderna che si combatte non solo con la tecnologia, ma anche a scapito delle vite umane più vulnerabili. La produzione dei droni Shahed, che causa devastazione in Ucraina, rappresenta non solo un contributo involontario alla guerra, ma anche una lotta quotidiana per la sopravvivenza in condizioni di sfruttamento e abuso.
Dopo un lungo silenzio, queste storie stanno finalmente emergendo grazie al coraggio di chi ha deciso di farsi sentire. La comunità internazionale non può più chiudere gli occhi: è necessaria una risposta forte e immediata da parte di governi e organizzazioni. L’indifferenza non è più un’opzione.