In Romania, le elezioni presidenziali hanno subito una svolta clamorosa: annullate dalla Corte costituzionale, a due giorni dal ballottaggio, nel primo turno, dichiarando l’impossibilità di garantire l’integrità del processo elettorale. Una decisione senza precedenti, motivata dalla desecretazione di documenti dei servizi di intelligence rumeni. Questi documenti sollevano il sospetto di una sofisticata campagna di manipolazione digitale orchestrata dalla Russia, che avrebbe favorito il candidato di estrema destra Călin Georgescu.
Georgescu, pressoché sconosciuto fino a poche settimane prima delle elezioni, ha sorprendentemente conquistato il 23% dei voti al primo turno. Una crescita vertiginosa, attribuita principalmente all’uso strategico dei social media, in particolare TikTok. Secondo i rapporti dell’intelligence, la sua campagna sarebbe stata sostenuta da account falsi, bot e micro-influencer, che avrebbero creato e diffuso contenuti virali con hashtag come #unleaderadattoperme. Questo approccio ha trasformato Georgescu in un fenomeno social, amplificando il suo messaggio politico e attirando il sostegno di elettori insoddisfatti.
Ma perché l’intelligence sospetta della Russia? Le accuse contro Mosca si basano su un modello già osservato in altri scenari geopolitici. La Russia è stata più volte collegata a campagne di disinformazione che utilizzano intelligenza artificiale, bot farm e operazioni di cyber-intelligence per destabilizzare democrazie occidentali e promuovere candidati vicini ai propri interessi. Nel caso rumeno, l’intelligence ritiene che Mosca potrebbe aver orchestrato una strategia complessa per manipolare l’opinione pubblica e minare la fiducia nel processo democratico.
I rapporti descrivono un’operazione ben pianificata. Account dormienti, creati anni prima, sono stati improvvisamente attivati per produrre contenuti a sostegno di Georgescu, mentre oltre 100 micro-influencer hanno pubblicato video su TikTok, Instagram e Facebook, accumulando milioni di visualizzazioni. Sebbene gli influencer coinvolti siano stati probabilmente inconsapevoli delle finalità della campagna, la loro attività ha contribuito a dare credibilità e visibilità al candidato.
Il sistema elettronico di voto della Romania, basato sulla tecnologia blockchain, è stato bersaglio di ben oltre 85.000 attacchi informatici, volti a compromettere i dati elettorali e alterare la percezione pubblica del processo. Sebbene il Serviciul de Telecomunicații Speciale (STS) abbia escluso impatti diretti sull’esito delle elezioni, la portata degli attacchi ha sollevato preoccupazioni significative.
Uno degli strumenti centrali di questa presunta operazione è stata l’intelligenza artificiale, utilizzata per analizzare i dati degli utenti, profilare target specifici e ottimizzare la diffusione di contenuti. Questo ha permesso di creare messaggi altamente personalizzati, capaci di risuonare profondamente con segmenti specifici di elettori. La Russia ha già dimostrato la propria abilità in questo campo: nel 2022, un deepfake del presidente ucraino Vladimir Zelenskij, in cui invitava (falsamente) i soldati ucraini a deporre le armi, è stato diffuso online per seminare confusione. Sebbene smascherato rapidamente, il video ha dimostrato l’efficacia di questi tool nell’influenzare le percezioni pubbliche.
Nel caso rumeno, i deepfake non sono stati direttamente segnalati, ma l’uso dell’intelligenza artificiale per manipolare algoritmi e amplificare contenuti polarizzanti è una tattica ampiamente documentata. Questa tecnologia, combinata con operazioni di disinformazione, si rivela una minaccia crescente per i processi democratici.
La decisione della Corte Costituzionale ha diviso il paese. Il premier socialdemocratico Marcel Ciolacu ha sostenuto che l’annullamento del voto fosse necessario per salvaguardare la trasparenza elettorale, mentre Georgescu ha definito la sentenza un “colpo di stato”. Ha invitato i suoi sostenitori a recarsi comunque alle urne nella data prevista per il ballottaggio, aumentando ulteriormente le tensioni. Le sue dichiarazioni hanno trovato un forte eco sui social media, amplificando un clima già polarizzato.
La vicenda della Romania non è isolata, ma si inserisce in un contesto globale di crescente manipolazione digitale. La Russia, con il suo arsenale tecnologico e l’uso avanzato dell’IA, rappresenta una minaccia costante per la stabilità dei processi democratici. Il caso rumeno sottolinea la necessità di rafforzare la sicurezza elettorale e di sviluppare strategie internazionali per contrastare le interferenze esterne.
La domanda che emerge è cruciale: come possono le democrazie proteggere i loro processi elettorali in un’epoca in cui la tecnologia viene sfruttata per destabilizzare? La risposta non può essere semplice, ma richiede un impegno che unisca tecnologia, regolamentazioni e consapevolezza pubblica. La Romania, oggi, è diventata un simbolo di questa sfida, ricordando che la difesa della democrazia non può essere lasciata al caso, ma deve diventare una priorità condivisa.
Mosca, sotto la guida di Vladimir Putin, ha affinato l’uso dell’intelligenza artificiale per analizzare comportamenti elettorali e creare contenuti mirati. L’obiettivo non è solo influenzare il risultato elettorale, ma anche minare la fiducia nelle istituzioni democratiche.
La vicenda delle elezioni rumene sottolinea la crescente rilevanza dell’intelligence nel contrastare queste minacce. I servizi di sicurezza rumeni e le agenzie internazionali si trovano ora di fronte a una sfida complessa: proteggere i processi democratici in un’epoca in cui la tecnologia viene utilizzata come arma per destabilizzare interi sistemi politici. Questo episodio rappresenta un campanello d’allarme per l’Europa intera, evidenziando la necessità di rafforzare la sicurezza digitale e di adottare misure preventive contro le interferenze esterne.
Operazioni sotto copertura, come quelle attribuite al GRU, l’agenzia di intelligence militare russa, sono spesso accompagnate da cyber-attacchi e campagne di disinformazione. Gli esempi non mancano: dal gruppo KillNet, responsabile di attacchi contro infrastrutture digitali europee durante eventi chiave, fino all’uso dei deepfake per diffondere notizie false e compromettere la fiducia dell’opinione pubblica. Il caso rumeno si inserisce in questa trama più ampia, in cui le agenzie di intelligence diventano attori centrali in uno scenario di “guerra ibrida” che unisce operazioni digitali, propaganda e destabilizzazione politica.
La sinergia tra intelligence e tecnologia rappresenta una componente fondamentale delle moderne strategie di ingerenza. L’intelligenza artificiale, con la sua capacità di analizzare dati e prevedere comportamenti, è impiegata non solo per studiare l’elettorato, ma anche per generare contenuti manipolatori che influenzano segmenti specifici della popolazione. In questo ambito, la Russia ha affinato tecniche avanzate, combinando operazioni digitali con risorse umane specializzate capaci di penetrare reti sociali e politiche locali. In Europa, tuttavia, l’uso della tecnologia da parte delle intelligence è regolamentato da normative come la direttiva NIS2 (Network and Information Security Directive 2), il GDPR (General Data Protection Regulation) e il DSA (Digital Services Act), che tutelano la sicurezza digitale e i diritti dei cittadini.
Le agenzie europee collaborano con il settore privato e organismi come Europol ed ENISA per affrontare minacce cibernetiche e fenomeni di disinformazione, ma si trovano a gestire sfide delicate: dal bilanciamento tra privacy e sicurezza, alla necessità di armonizzare le risorse tra stati membri, fino all’urgenza di normative adeguate all’IA. In un contesto in cui le tecnologie vengono sfruttate per destabilizzare processi democratici, l’Europa sta implementando strategie integrate per consolidare la resilienza istituzionale e garantire una protezione efficace delle sue infrastrutture critiche, confermandosi in prima linea nella difesa dei valori democratici.