Anche la cultura, nel senso più ampio del termine, subisce la discriminazione di chi la considera, a torto, destinata soltanto a categorie di eletti privilegiati, per un motivo o per un altro. Peggio ancora, quando si preferisce non fare cultura, pur di boicottare chi non viene considerato meritevole dal giudizio impietoso di tali eletti.Era prevista, nei primi giorni di settembre, in Milano, una conferenza internazionale su cinema in lingua inglese, con relatori prestigiosi da tutto il mondo; insomma, un parterre che fa cultura. Conferenza organizzata da due importanti associazioni, l’una accademica e l’altra culturale e artistica. Scrivo che “era prevista” perché, in realtà, è stata cancellata: tutti a casa, non se ne fa nulla. Biglietti pagati, location, alberghi, tutto inutile.
La causa scatenante è stato il fatto che fra i keynote speakers era stata invitata Naomi Mandel docente israeliana della Hebrew University, con nome già inserito in tutta la comunicazione e negli inviti per la conferenza. Eh già, perché una conferenza con una docente universitaria israeliana non s’ha da fare.
La docente riceveva, infatti, una prima comunicazione nella quale le si rappresentava che, avendo una delle due organizzazioni aderito al Manifesto ‘Artisti Italiani per Gaza’, non c’era più possibilità di invitare, collaborare o anche avere rapporti con una docente universitaria di Israele. Il Manifesto dice infatti, dopo tutta una serie di posizioni di estremizzazione ideologica, che non si debbono più avere collaborazioni con chi “rappresenta e/o è solidale con il governo israeliano”. Un vero e proprio boicottaggio, una discriminazione evidente per origine nazionale, in piena contraddizione con il divieto di discriminazione per qualsivoglia motivo di cui alla nostra carta costituzionale, a norma di legge e in base ai diritti fondamentali dell’individuo.
Alla docente, ovviamente colpita dalla decisione di escluderla per la sua origine nazionale e colpita anche nella sua dignità personale e professionale, veniva offerta la possibilità di intervenire in uno spazio ristretto su zoom e prima dell’inizio dei lavori della conferenza, spazio, comunque, non incluso e non pubblicizzato nella manifestazione culturale. Pare normale e giustificato che il triste contentino, ulteriormente rimarcante la sua discriminazione, venisse rifiutato.
Scriveva, quindi, prima lo studio legale Boggio di Genova insieme alla collega Cristina Franco rappresentando alle due organizzazioni l’illegittimità della scelta discriminatoria e sottolineando che il Manifesto per Gaza, motivo dell’esclusione della docente, conteneva affermazioni ideologizzate e che, secondo definizione operativa IHRA di antisemitismo, rappresentavano, appunto, ipotesi di antisemitismo. Si deduceva, fra le altre cose, non solo che è odiosa e illecita ogni forma discriminazione, ma che comunque le università israeliane sono istituzioni autonome, non rappresentano né hanno mai rappresentato alcun governo israeliano e che “presumere” che la docente o l’università cui appartiene siano solidali con il governo israeliano non può essere mai motivo di discriminazione e boicottaggio. Colpire una docente, una donna per colpire un governo è oltre tutto vergognoso e inutile nell’aspetto pratico. Si chiedeva che la docente venisse pertanto reintegrata nel programma come keynote speaker, secondo diritto, giustizia e civiltà.
In tutta risposta, replicava uno studio legale di Milano, ribadendo inspiegabili e ingiustificabili tesi di estrema posizione ideologia, confermando, per conto delle organizzazioni assistite, la decisione di discriminare la docente. Peggio: si è arrivati a chiedere alla docente di condannare pubblicamente il proprio paese per poter essere riammessa fra i relatori! Le si è chiesta un’odiosa forma di abiura. Si è cercato di renderla responsabile della sua discriminazione o della sua non discriminazione, ponendo condizioni al suo diritto a non essere discriminata. Ma, come hanno poi replicato gli avv. Marco Torta di Torino e Cristina Franco, il diritto a non essere discriminati non tollera condizioni o limitazioni; il divieto di discriminazione non ha attenuanti basate sulla posizione politica o l’origine nazionale di una persona e soprattutto, il diritto a non essere discriminati è un diritto fondamentale dell’uomo. Non ci possono essere scusanti.
Pretendere di accollare a una persona l’eventualità e financo la responsabilità della propria discriminazione è gravissimo. Pretendere che la docente condannasse o meno il governo israeliano, nemmeno conoscendo l’idea di quest’ultima, è un ricatto talmente odioso da rendere non sopportabile la decisione presa. Si è quindi preannunciata l’azione legale per il ristoro della giustizia e dei diritti della docente, umiliata dall’atteggiamento di organizzazioni che dovrebbero rappresentare il mondo della cultura, non delle ideologie politiche.
La risposta arrivava. Una delle due associazioni comunicava alla docente di non voler essere responsabile di un’evidente odiosa e illecita discriminazione (un po’ tardi per essere sussulto di coscienza) e decideva di sfilarsi dalla organizzazione della conferenza che veniva, quindi, definitivamente annullata.
Resta un’infinita amarezza e resta il senso di frustrazione dei diritti della persona calpestati per “presunte” incomprensibili colpe, ossia essere cittadini di uno stato, a prescindere dalla propria posizione, a prescindere dalla propria levatura professionale. La cultura piegata alle ideologie e una “non cultura”: piuttosto che far parlare l’ottima docente israeliana, che avrebbe potuto dare un importante contributo alla manifestazione, si è preferito non far parlare nessuno, rinunciare all’evento, rinunciare alla libertà. Una sconfitta per la libertà. Una sconfitta per la cultura e il mondo accademico italiano.
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