Ad un certo punto la Libia ha smesso di esistere, dividendosi in due nuove entità regionali – la Tripolitania e la Cirenaica – l’una contro l’altra ferocemente armate. Mentre Turchia e Qatar rifornivano d’armi la Tripolitania ed Egitto, Russia ed Arabia Saudita facevano la stessa cosa con la Cirenaica, i circoli politici e culturali europei si davano da fare per organizzare: “Un percorso democratico che porti alle elezioni”. Mentre i signori della guerra si compravano la fedeltà delle milizie un tanto al chilo, i Governi europei – quasi come se vivessero su un altro pianeta – organizzavano convegni sul processo democratico di un Paese che ormai non esisteva più. Mentre si tenevano costosi convegni a Palermo, in Germania, in Francia, i giornali europei a larga diffusione sbandieravano la notizia delle elezioni politiche “in Libia” entro Natale. Elezioni che ovviamente non si sono mai tenute e che per fortuna non si sono tenute, altrimenti il giorno successivo alla promulgazione dei risultati la guerra tra Tripolitania e Cirenaica sarebbe riesplosa a tutto campo.
Ad un certo punto più di centomila soldati russi si sono portati ai confini con l’Ucraina. E mentre si vedevano i carristi del Cremlino montare artigianali gabbie antidrone sui tetti dei tank, mentre venivano spedite le sacche di sangue negli ospedali militari degli accampamenti, quando Putin aveva già scritto che “L’Ucraina può esistere solo in partnership con la Russia, perché russi e ucraini sono un unico popolo”, quando il Cremlino aveva già spedito la cosiddetta “Bozza per le garanzie di sicurezza” alla NATO, in cui si diceva che la Russia rivoleva il suo protettorato sull’Europa orientale, gli uomini politici e i circoli culturali europei iniziarono a ripetere che: “Bisognava implementare gli Accordi di Minsk”. Il sospetto che molti politici, giornalisti e uomini di cultura che chiedevano tale “implementazione”, quegli accordi non li avessero mai letti è forte. Anche solo a guardare l’ultima pagina avrebbero scoperto che la Russia non era firmataria di quegli accordi e, a livello diplomatico, non si considerava neppure parte in causa; una lettura, anche superficiale, avrebbe mostrato poi che quegli accordi non erano applicabili, che mancavano di una razionale road-map, che erano considerati nati morti da quasi tutta la comunità degli analisti. Mentre la guerra era alle porte l’Europa parlava degli Accordi di Minsk.
Veniamo ad Israele. Mentre è accaduto ed accade ciò che vediamo, come un sol uomo la comunità politico-culturale europea ha iniziato a dirci che: “La soluzione del problema palestinese sta nella formula due stati per due popoli”. Questo può essere considerato meritorio da molti, ma non è questa la questione all’ordine del giorno, anzi, non è mai stata così lontana dall’essere all’ordine del giorno da decenni. Ci vorranno anni perché la rabbia dei “due popoli” si possa raffreddare e si possa anche soltanto immaginare l’apertura di un processo negoziale tra le parti ora in guerra. Questa riflessione è talmente banale che non si sente quasi la necessità di spiegarla. Ci sarebbe poi un piccolo dettaglio da considerare: i fatti dimostrano che la maggioranza di entrambi i cosiddetti “popoli” non ha la volontà politica di volere due Stati. Israele è una democrazia e l’analisi qui è semplice: quasi ininterrottamente dal 2009 ad oggi la maggioranza dell’elettorato israeliano ha mandato al governo coalizioni guidate da Benjamin Nethanyahu, e lui è la garanzia politica che se resta potere, il processo negoziale con l’Autorità Palestinese rimarrà congelato.
In Palestina non c’è democrazia parlamentare, e l’analisi può rappresentare evidenze minori. Ma Hamas ha vinto in modo inequivocabile le uniche elezioni tenute dall’Autorità Nazionale Palestinese, nel 2006; secondo i sondaggi, con ogni probabilità le avrebbe rivinte con ancora un maggior margine nel 2021, se solo il Presidente dell’ANP non avesse cancellato le elezioni a meno di un mese dalla scadenza. Tutto fa pensare che dal 2021 a oggi il gradimento di Hamas tra i palestinesi sia ulteriormente aumentato, non diminuito. E Hamas non vuole due Stati per due popoli, vuole la distruzione di Israele. E’ scritto nel suo Statuto.
Molti tra i politici e gli uomini di cultura europei sanno della lunga esperienza di trattative avvenute sulla questione dei due Stati tra israeliani e palestinesi, in tempi di gran lunga migliori di questi. Chi ha seguito la questione sa perfettamente il punto in cui si è sempre interrotta la trattativa. Gli Israeliani considerano un rischio mortale per la loro sopravvivenza abbandonare la riva sinistra del Giordano, e conseguentemente abbandonare le strade che la raggiungono. Di conseguenza i palestinesi non si sono mai sentiti disposti ad accettare la carta geografica dei “due Stati” che, di volta in volta, gli israeliani hanno loro sottoposto. Inoltre c’è il problema del “diritto al ritorno” che non ha mai trovato soluzione. Non si vuole qui stabilire chi ha ragione e chi ha torto. Si vuole solo sottolineare che la soluzione “due popoli due stati” è oggi lontanissima dal mondo delle cose reali e quando, in tempi ormai lontani, sembrava essere all’ordine del giorno, si è sempre rivelata un problema senza speranza di soluzione.
Nella situazione data, mettersi a chiacchierare della soluzione “due Stati, due popoli” è – ancora una volta – mettersi a parlare d’altro mentre la situazione è seria. All’ordine del giorno c’è un’altra realtà: un’organizzazione terroristica ha compiuto in territorio israeliano una strage con le stesse modalità usate dall’ISIS nel teatro Bataclan di Parigi. Con molte, molte più vittime di quelle contate quella notte. Questa organizzazione non minaccia solo Israele ma, per la sua natura e le sue modalità di azione, l’intera comunità democratica e moltissimi Paesi arabi. Come la si può rendere il più possibile inoffensiva cercando di evitare per quel che si può un’immensa strage tra i palestinesi di Gaza? La questione è aperta. Sporchiamoci le mani con questa triste, pragmatica, violenta realtà. Discutiamo di questo, non di altro.
La comunità politico-culturale europea dovrebbe iniziare a sporcarsi le mani con il mondo reale, ribadire quanto siamo desiderosi di pace, di compromessi, di accordi e quant’altro – si, insomma: ripetere al mondo ed a noi stessi quanto siamo bravi, civili e culturalmente avanzati – quando la forza delle cose richiede grandi responsabilità non porta in realtà alcun onore. Questo atteggiamento culturale sembra più che altro la dimostrazione della nostra volontà di tagliarci irresponsabilmente fuori dal corso della Storia. Operazione inutile: in un modo o nell’altro la Storia verrà comunque a chiederci il conto.
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