I dati pubblicati recentemente dall’OCSE sul tasso di occupazione in Italia sembrano rappresentare una ventata di ottimismo per il governo guidato da Giorgia Meloni. Con un incremento dal 62% al 62,5% nel secondo trimestre dell’anno e un confronto positivo rispetto al 61,4% dello stesso periodo del 2022, l’esecutivo non ha perso occasione per sventolare il dato come una vittoria delle proprie politiche. Ma è davvero tutto oro ciò che luccica? Secondo il giornalista Giovanni Floris, la risposta è tutt’altro che scontata.
Il valore dei numeri, un’illusione senza sostanza?
Ospite di Piazza Pulita su La7, Floris ha sollevato dubbi legittimi e profondi sull’interpretazione di questi dati. La sua critica non si ferma alla superficie delle statistiche, ma scava più a fondo, puntando i riflettori su un problema spesso ignorato, la qualità del lavoro. “Record dell’occupazione? È un’unità di misura vecchia,” ha dichiarato Floris, esortando a un’analisi che vada oltre il mero conteggio degli occupati e si concentri invece su ciò che quei numeri rappresentano realmente per la vita delle persone.
Un lavoro non è solo una cifra da aggiungere a una colonna in una tabella Excel. È dignità, sicurezza, e qualità della vita. È ciò che consente a una famiglia di vivere con serenità, di progettare un futuro, di costruire una società più equa e prospera. Ridurre la discussione sull’occupazione a un trionfo numerico significa ignorare le storie di precarietà, sfruttamento e salari al limite della sopravvivenza che si nascondono dietro quelle cifre.
L’esempio di Floris, il paradosso della badante
Floris ha esemplificato la sua critica con un’osservazione tanto semplice quanto potente: “Mettiamo che hai bisogno di una badante per una persona anziana e la paghi 10 euro. Ma se potessi pagarla 5, avresti due badanti. Quindi cos’è, abbiamo creato il doppio di lavoro? In quest’ottica, se non paghi nessuno puoi avere la piena occupazione.” Questo paradosso mette in luce una verità scomoda, i numeri non tengono conto delle condizioni di lavoro, delle ore massacranti, dei contratti instabili, e dei salari insufficienti. Creare occupazione a scapito della dignità dei lavoratori non è un progresso, è una regressione mascherata da successo.
Il lavoro come misura della qualità della vita
Floris pone una domanda cruciale: a cosa serve aumentare il tasso di occupazione se ciò non migliora la qualità della vita delle persone? Parlare di occupazione senza affrontare il tema dei salari, delle tutele sociali, della sicurezza nei luoghi di lavoro e della stabilità contrattuale è come costruire una casa senza fondamenta. Una crescita basata su lavori malpagati e precari non è sostenibile, né economicamente né socialmente.
L’Italia ha ancora un tasso di occupazione ben al di sotto della media OCSE, ma questo non deve essere un alibi per promuovere politiche che si accontentano di aumentare i numeri a qualsiasi costo. Serve un cambio di paradigma, il lavoro non può essere trattato come una mera variabile economica, ma deve tornare al centro delle politiche sociali come pilastro di equità e giustizia.
Un futuro da costruire
Il dibattito sollevato da Floris ci ricorda che dietro ogni statistica ci sono persone reali con storie e bisogni concreti. Se il governo vuole davvero celebrare una “vittoria”, deve iniziare a misurare il successo delle sue politiche sulla base dell’impatto che queste hanno sulla vita quotidiana dei cittadini. Un’Italia che si accontenta di occupazione precaria è un’Italia che rinuncia al suo futuro.
Non basta aumentare i numeri. Serve una visione. Una visione che metta al centro la dignità del lavoro e la qualità della vita. Solo così potremo davvero parlare di progresso.