Mosca nel mirino: dopo Armen Sarkisjan, chi sarà il prossimo?

L’attentato esplosivo che ha ucciso Armen Sargsyan e gli attacchi con droni sulle raffinerie russe dimostrano che il conflitto ha ormai superato ogni confine. Mosca non è più un rifugio sicuro, ma un campo di battaglia

Ieri, lunedì 3 febbraio, un’altra notte di fuoco per Mosca e per il territorio russo. Due operazioni mirate hanno colpito il cuore della strategia militare del Cremlino: un attentato esplosivo in un grattacielo nei sobborghi della capitale, che ha ucciso Armen Sarkisjan, e un attacco massiccio con droni su due impianti di raffinazione del petrolio a Volgograd e Astrachan’. La guerra, che Mosca voleva relegata ai confini con l’Ucraina, continua a varcare le linee del fronte. E questa volta lo fa con un’azione che sembra ricalcare, quasi con una regia cinematografica, il copione già visto con l’uccisione del generale Kirillov appena un mese e mezzo fa.

L’attacco a Mosca è stato un’operazione chirurgica. Una granata è esplosa nell’atrio del complesso residenziale di lusso “Alye Parusa”, situato in via Aviazionnaja, nella zona nord-ovest della capitale russa. Il boato ha scosso l’intero edificio, attivando i sistemi di allarme e provocando il panico tra i residenti. Il principale obiettivo dell’attacco era Armen Sarkisjan, ex pugile, presidente della Federazione di Boxe della Repubblica Popolare di Donetsk (DNR) e fondatore del battaglione delle forze speciali ArBat, l’unità d’élite che svolge missioni strategiche e incursioni mirate nel contesto del conflitto in Ucraina.

Secondo fonti russe, Sarkisjan non era solo un militare e un organizzatore di forze paramilitari, ma anche una figura chiave nel mondo della criminalità organizzata russa. Era noto come “Armen Gorlovskij”, un nome che risuonava negli ambienti criminali e politici dell’ex Unione Sovietica. Era vicino a Viktor Janukovič, l’ex presidente ucraino fuggito in Russia nel 2014, ed era stato uno degli organizzatori dei tituški, i gruppi di picchiatori assoldati per reprimere le proteste di Maidan. Era inoltre coinvolto in un tentativo di colpo di Stato in Armenia, dimostrando il suo ruolo nei giochi di potere non solo in Russia e Ucraina, ma anche nella regione del Caucaso.

Subito dopo l’esplosione, le informazioni sulla sorte di Sarkisjan sono state discordanti. I media ucraini lo hanno dato subito per morto, mentre le agenzie russe hanno inizialmente parlato di un ricovero in terapia intensiva presso lo Sklifosovskij, dove i medici hanno tentato di salvargli la vita. Solo alle 13:27 di ieri (ora di Mosca) è arrivata la notizia ufficiale: Sarkisjan è morto in terapia intensiva senza mai riprendere conoscenza. La sua guardia del corpo, Oleg Kasperovič, è deceduta sul colpo, mentre almeno quattro persone sono rimaste ferite, tra cui alcuni dipendenti del palazzo, come confermato dal Dipartimento della Salute di Mosca.

Stando alle informazioni raccolte dal Comitato Investigativo Russo, l’attacco sarebbe stato “meticolosamente pianificato” e diretto esclusivamente contro Sarkisjan. Sul luogo dell’attacco era giunto il capo del Comitato Investigativo principale di Mosca, Andrej Strižov, per coordinare le indagini. Dopo l’attentato, le prime ipotesi hanno puntato sui servizi segreti ucraini, ma fonti vicine agli ambienti russi hanno suggerito un altro possibile mandante: i Kadyrovcy, le milizie fedeli a Ramzan Kadyrov. Secondo questa versione, Sarkisjan avrebbe avuto un conflitto con i circoli ceceni legati a Kadyrov, che controllano ampie porzioni del mondo criminale e paramilitare in Russia. L’eliminazione di Sarkisjan sarebbe quindi un regolamento di conti interno al sistema russo, piuttosto che un’operazione dell’intelligence ucraina. Se questa ipotesi fosse confermata, dimostrerebbe un crescente accentramento economico e politico in Russia, dove le bande criminali e i gruppi paramilitari iniziano a sfidarsi apertamente per il controllo delle risorse e del potere.

Parallelamente all’attentato a Mosca, un altro attacco ha colpito il territorio russo, questa volta con una rivendicazione chiara: le forze armate ucraine hanno bombardato con droni due raffinerie russe a Volgograd e Astrachan’. Secondo lo Stato maggiore di Kiev, gli attacchi hanno avuto un obiettivo preciso: la raffineria di petrolio di Volgograd (Lukoil-Volgogradnefteperebka) e l’impianto di lavorazione del gas di Astrachan’. “Entrambi gli impianti sono importanti produttori di carburante per l’esercito russo”, ha dichiarato lo Stato Maggiore ucraino. Mosca accusa Kiev di aver colpito infrastrutture civili, ma secondo le fonti ucraine, questi siti sono strategici per la logistica militare russa e fanno parte di un piano più ampio per indebolire la capacità bellica del Cremlino.

Ed ecco che i confini della guerra si dissolvono ulteriormente, cancellati da un conflitto sempre più sfumato e incontrollabile. L’omicidio di Sarkisjan non è solo un atto terroristico, ma un chiaro segnale che Mosca è ormai teatro di uno scontro tra fazioni rivali, che si tratti di forze ucraine o di gruppi paramilitari interni.

Mentre i droni di Kiev colpiscono le infrastrutture energetiche, il Cremlino si trova di fronte a una minaccia ancora più insidiosa: la criminalizzazione del conflitto e la proliferazione di milizie sempre più autonome. Se il potere centrale non riesce a contenerle, la Russia rischia di precipitare in uno stato di guerra permanente, non per mano dell’Ucraina, ma per effetto del proprio sistema, ormai in frantumi.

Ormai, la domanda più pertinente non è più “chi ha ucciso Sarkisjan?”, ma “chi sarà il prossimo?”.

@Riproduzione riservata