A cura di Andrea Delitala, Head of Investment Advisory di Pictet Asset Management
- Febbraio ha registrato performance azionarie positive in USA, Europa e Giappone, trainate da fondamentali solidi e da buoni risultati societari nel settore tecnologico.
- Le banche centrali, pur confermando i tagli dei tassi, chiedono più tempo per valutare il processo disinflattivo e la stabilizzazione del mercato del lavoro.
- Le prospettive per il 2024 restano promettenti, con rendimenti previsti tra il 5% e il 10% per le strategie bilanciate.
Febbraio si è confermato un mese molto positivo per i mercati finanziari con performance azionarie generose pari al 5% in America, 7,5% in Europa e 10% in Giappone, sostenute da fondamentali forti, specialmente negli Stati Uniti, e buoni risultati societari, in particolare delle aziende del settore tech. Le obbligazioni hanno subito una correzione per le stesse ragioni macroeconomiche e per la conseguente retorica attendista dei banchieri centrali senza però contagiare le asset class rischiose, come invece era accaduto in autunno. I rendimenti a due anni dei Treasury, ad esempio, sono saliti di circa mezzo punto e di 35 punti base sul decennale. Movimenti che sono però in buona parte rientrati nelle prime settimane di marzo.
La compostezza dei mercati si deve anche alla seguente lettura delle nuove informazioni su ciclo e politica monetaria: da un lato, la forza dell’economia è considerata in parte temporanea, dato che alcuni fattori di sostegno andranno esaurendosi nel corso dei prossimi mesi; dall’altro, sia la Fed che la BCE hanno di fatto confermato la disponibilità ad inaugurare il ciclo ribassista dei tassi, anche se hanno chiesto altro tempo per iniziarlo, subordinandolo ad una maggiore convinzione sul processo di disinflazione. Questo viene in qualche modo ricondotto a una maggiore stabilizzazione dei salari e, quindi, del mercato del lavoro che sembra ormai in atto. Per quanto riguarda l’Europa, probabilmente assisteremo anche ad una stabilizzazione dei profitti.
I peggiori timori di stagflazione, stile 2022, sembrano lontani e il mercato sembra al momento prettamente concentrato a ricalibrare il timing dei tagli nei tassi di interesse. Ad oggi, per il 2024 sono prezzati tre tagli negli Stati Uniti, in linea con quanto dichiarato dalla Federal Reserve a dicembre, mentre quattro per la BCE. In linea con le attese del mercato, anche noi ci aspettiamo il primo taglio a giugno fondamentalmente da parte di entrambe le principali banche centrali. Tuttavia, c’è il rischio che la Fed abbassi a solo due tagli le sue previsioni nella prossima riunione del 20 marzo. Una questione di non facile interpretazione sarà definire il punto d’arrivo terminale, elemento che richiede la comprensione di quale scenario economico, tecnologico e geopolitico prenderà forma dopo che si poserà la polvere di questo ciclo economico post-pandemico. Ormai sono sempre meno i dubbi sul fatto che stiamo superando la fase critica e sono pochi quelli nel mercato che ancora dubitano del processo disinflattivo. La maggior parte abbraccia ormai lo scenario di soft landing. I dubbi residui riguardano principalmente il punto di equilibrio dei tassi di interesse reali e nominali nel lungo periodo.
Sul punto di atterraggio, il cosiddetto tasso neutrale, si avverte un certo nervosismo nel dibattito interno alle banche centrali e tra gli economisti. Da un lato, la grande spinta dell’innovazione tecnologica sulla produttività potrebbe portare ad un valore più elevato dei tassi d’interesse di lungo termine; quest’ultimo si attesterebbe in termini reali, ovvero corretti per l’inflazione attesa, su un valore di circa l’uno percento, anziché lo 0,5% in America e qualcosa sopra lo zero in Europa. Le stime più recenti, pubblicate proprio in questi giorni dalla Fed e da altri centri studi, avvalorano questi livelli se non anche un po’ più alti. D’altro canto, alcuni, tra cui Isabel Schnabel, osservano come l’Europa si trovi un passo indietro nell’adottare delle misure di efficientamento della propria struttura produttiva e questo aspetto, assieme ad altri fattori, potrebbe tradursi in un freno alla crescita potenziale e, forse, anche in una maggiore persistenza dell’inflazione, certamente in un trade-off più antagonistico tra margini di profitto e costi unitari del lavoro. Questi dubbi sugli equilibri e sui tassi di lungo termine giustificano l’attuale volatilità storicamente elevata nei tassi a lunga scadenza.
Cosa aspettarci nelle prossime settimane?
Nella migliore delle ipotesi, un trading range nelle obbligazioni o ulteriori piccoli cali nei rendimenti, verso il 4% nel decennale americano e il 2,25% nel Bund tedesco, qualora i dati sull’inflazione confermino il trend discendente. In questo caso la performance azionaria potrebbe vedere un po’ di rotazione settoriale dalla tecnologia al resto degli indici e forse anche all’healthcare. In uno scenario meno propizio non si può escludere una correzione leggermente più pronunciata degli indici azionari che, dopotutto, vengono da molte settimane di risalita: dai minimi di ottobre, infatti, il recupero delle borse dei paesi sviluppati va dal 20% europeo al 30% del Giappone. Mentre si è registrato solo un 12% nei mercati emergenti. Ma, in questo caso, le obbligazioni dovrebbero poter offrire un po’ di protezione al portafoglio, così come il dollaro dopo il recente indebolimento a ridosso del 1,10.
In generale, le correlazioni tra le due principali attività finanziarie, azioni e obbligazioni, mostrano segni di miglioramento, ovvero un andamento giornaliero più contrapposto, contribuendo alla stabilizzazione di un portafoglio multi-asset. Questo rappresenta certamente un segnale incoraggiante, ma per poter contare su una piena normalizzazione occorrerà, a nostro avviso, lasciarsi alle spalle definitivamente questo ciclo economico particolare. Infine, Bitcoin e oro, protagonisti rispettivamente a febbraio e a marzo, rappresentano a nostro giudizio dei segnali appena preoccupanti che vi possa essere qualche eccesso di euforia nel mercato. In ogni caso, le prospettive di performance nel medio termine e per l’anno in corso restano promettenti, con rendimenti previsti tra il 5% e il 10% per le strategie bilanciate.
Le informazioni, opinioni e stime contenute nel presente documento riflettono un’opinione espressa alla data originale di pubblicazione e sono soggette a rischi e incertezze che potrebbero far sì che i risultati reali differiscano in maniera sostanziale da quelli qui presentati.
Il Gruppo Pictet
Fondato a Ginevra nel 1805, il Gruppo Pictet è uno dei principali gestori patrimoniali e del risparmio indipendenti in Europa. Con un patrimonio gestito e amministrato che ammonta a circa 681 miliardi di euro al 31 dicembre 2023, il Gruppo è controllato e gestito da otto soci e mantiene gli stessi principi di titolarità e successione in essere fin dalla fondazione. Il Gruppo Pictet, con oltre 5.300 dipendenti, ha il suo quartier generale a Ginevra e altre sedi nei seguenti centri finanziari: Amsterdam, Barcellona, Basilea, Bruxelles, Dubai, Francoforte, Hong Kong, Londra, Losanna, Lussemburgo, Madrid, Milano, Montreal, Monaco di Baviera, Nassau, New York, Osaka, Parigi, Principato di Monaco, Roma, Shanghai, Singapore, Stoccarda, Taipei, Tel Aviv, Tokyo, Torino, Verona e Zurigo. Pictet Asset Management (“Pictet AM”) comprende tutte le controllate e le divisioni del Gruppo Pictet che svolgono attività di asset management e gestione fondi istituzionali. Fra i principali clienti si annoverano alcuni dei maggiori fondi pensione, fondi sovrani e istituti finanziari a livello mondiale.