di Andrea Atzeni
Siamo sinceri. Chiunque vada al cinema a vedersi questo Berlinguer. La grande ambizione sa benissimo che gli verrà propinato il tipico santino apologetico su grande schermo. Bastava vedere i trailer, anzi non serviva neppure vederli. Niente lamentele, dunque, e niente ovvietà. Per carità, è un lavoretto ben confezionato, nel suo genere quasi televisivo, con attori bravissimi, a cominciare da Elio Germano, che infatti si stenta spesso a distinguere dal vero Enrico Berlinguer degli spezzoni di repertorio intercalati nella pellicola (Ma sarà vera arte?, si chiederebbe a questo punto Snoopy). Tutto bene e tutto assolutamente prevedibile, insomma. E anche andarselo a vedere dev’essere per alcuni un compitino doveroso. Persino il titolo non è originale, dopo la grande illusione e la grande guerra, e poi la grande fuga, l’abbuffata e altre robe grandi, la bellezza persino. D’altronde il grande Berlinguer non è neppure un Drugo Lebowski, al massimo Germano sarà un apprendista Stanislao Moulinsky.
Però qualche sorpresa c’è. Prima di tutto, e proprio all’inizio del film, tanto per cominciare bene, c’è un funzionario di partito bulgaro che vorrebbe visitare l’Italia per conoscere Fellini. Gli piacciono i suoi film perché ci sono quelle attrici con le tette grosse, par di capire. Fellini fa infine capolino in carne e ossa al funerale di Berlinguer, quello vero. Dovuti omaggi, si dirà. Ci mancherebbe, ma che c’entra Fellini col realismo non dico socialista e neppure socialdemocratico ma neanche medioprogressista, anzi men che meno. Comunque non si fellineggia qui. Niente a che fare con Il Divo, che si permetteva di mettere in scena il fantomatico bacio tra Andreotti e Riina. Qui c’è solo il bacio di Brežnev, castamente deposto sulle guance di Enrico, neppure sulla bocca come invece quell’altra volta di fuoco con Honecker. Niente a che fare neppure con Loro, dove il protagonista non era veramente il protagonista, che tra l’altro ne usciva piuttosto bene e simpaticissimo, ma loro appunto, l’entourage di questuanti. In effetti solo la scenografia dei caratteristi permetterebbe qualche analogia con la grande tradizione cinematografica nostrana: Acquaroli, Calabresi e Tirabassi non sono da meno di Buccirosso, Centamore e Colangeli. Tutti peraltro si ispirano a Ingrassia e a Totò e Peppino. O forse ad Anatrelli, Bologna e Reder, con Antonelli ubiquo ai casi, per tacere di Vitali. Infatti Roberto Citran, truccato da Aldo Moro, sembra Paolo Paoloni megadirettore galattico, sia pure senza poltrona in pelle umana. D’altra parte l’umile dimora romana di Enrico ricorda l’abituro del ragionier Fantozzi, benché moglie e figli suoi siano più banali ma non meno uggiosi di Pina e Mariangela. Solo quando si va in gita in Sardegna salta fuori una gracile barchetta, tanto scalcagnata che ti aspetti che da un momento all’altro venga assalita dalla nuvola del ragioniere.
Il tizio bulgaro intanto perisce nell’ormai mitico incidente stradale. Così si mettono subito le cose in chiaro: Berlinguer fu vittima, o quasi, del sistema sovietico, mica complice. Però poi Enrico torna a casa e confida alla moglie di essere certo lo volessero fare fuori, ma per il bene del partito e del proletariato le chiede di non raccontarlo troppo in giro. Zitti e Mosca. Grande momento emblematico e grottesco, tra realismo magico e iperrealismo. Poi c’è quell’altra sequenza, che non può non colpire anche i più distratti tanto è ostentatamente e didascalicamente anacronistica (quanto il cemento armato risorgimentale in Noi credevamo), in cui il segretario del PCI è contrariato perché tra i ministri del governo democristiano, nuovo ma già vecchio, che si appresta a sostenere non è previsto alcun “tecnico”, neppure a un dicastero minore, solo per cominciare a fare l’abitudine (Nel 1978?, esclama in coro con delusione la sala cinematografica gremita di barbe brizzolate con la kefiah al collo). È certo una narrazione col senno di poi, retrospettiva, “sempre tesa” viceversa a una filosofia della storia progressiva, col futuro già scritto. L’idea è che si possegga la scienza del buon governo e, al netto di politicismi e opportunismi (che sono sempre e solo piccinerie altrui, dalla questione morale fino a Mani Pulite), basti questo per portare il popolo italico, come l’umanità tutta, sulla retta via del Bene. Soltanto che allora era il Sol dell’Avvenire, come ricordava il titolo di un film dell’altr’anno, ovvero il materialismo storico, la lotta di classe e l’assalto al comitato d’affari della borghesia. Oggi neppure serve un tale azzardo temerario. Basta il tecnico, che ti trova il guasto, il sifone intasato o il fusibile bruciato, e te lo ripara. I nuovi piani quinquennali sono la lista della spesa dal ferramenta. Così ci si continua a sentirsi migliori degli altri senza la scocciatura e la responsabilità di dover fare la minima scelta, almeno all’apparenza. Più banali e uggiosi che mai.
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