Un drone lanciato presumibilmente da Hezbollah ha colpito le truppe israeliane presso Binyamina, a nord di Haifa. Il bilancio è di 4 soldati morti e una sessantina feriti tra cui 7 in modo grave. Su queste pagine avevamo già preventivato come il pericolo rappresentato dai droni avrebbe messo alla prova Israele, la realtà ce ne ha dato conferma: tra gli oggetti volanti scagliati finora su Israele i droni sono stati quelli che hanno causato il maggior numero di vittime. Colpisce come questi aggeggi, lenti, rumorosi e con una tecnologia primitiva, possano risultare più efficaci dei costosissimi missili balistici o cruise. Riassumiamo brevemente quanto già avevamo scritto a suo tempo: i sistemi di difesa israeliani sono ottimizzati per intercettare i missili e non i droni. Il sistema di intercettazione a corto raggio “Iron Dome” è stato modificato a questo scopo ma le sue prestazioni non risultano ancora ottimali. La cosa più complicata con i droni è però il loro rilevamento: il drone che ha colpito Binyamina – così come altri prima di lui – non è stato visto arrivare e non ha fatto suonare le sirene di allarme. I droni hanno pochissimo metallo e lasciano una traccia molto evanescente sui radar, sono piccoli e possono essere confusi con altre cose volanti; si è dato il caso di un gruppo di droni segnalati in avvicinamento che hanno improvvisamente cambiato rotta, a un miglior controllo è risultato che si trattava di uno stormo di Gru. Con i droni c’è poi il problema della comprensione amico/nemico: se un missile arriva verso il territorio israeliano si può esser certi che è del nemico, ma un drone che svolazza sulle colline potrebbe anche essere quello dei colleghi della brigata che hai di fianco che lo stanno usando pochi chilometri più in là.
C’è poi il problema dei costi, un problema davvero enorme: abbattere un drone spesso significa distruggere un’arma del costo di 2.000 euro con un missile intercettore che costa dieci volte tanto, e anche di più (un missile “Tamir” del Sistema “Iron Dome” costa 50.000 dollari). Un ‘gioco” del genere, se protratto, può portare l’arsenale di un esercito alla bancarotta. L’Esercito Israeliano deve fare i conti con intrusioni volanti di tipo diverso che giungono da sette fronti diversi; in una situazione così complicata gli strateghi di Israele hanno dovuto darsi delle priorità. Il Generale in ritiro, Ran Kochav, ex comandante del sistema di difesa aerea, sulla questione è cristallino: “L’Esercito ha valutato che i droni non sono una minaccia esistenziale, quindi sono stati considerati come una “seconda priorità”. Era necessario stabilire delle priorità, la difesa non è perfetta ma la notte del 14 Aprile e a ottobre (riferimento ai due attacchi iraniani con centinaia di missili balistici) la nostra difesa è stata eccellente”. Comunque sia ora Israele deve lavorare freneticamente per contrastare una minaccia per la quale era poco preparato.
Il tempo corre e una prima soluzione ipotizzata è di tirare fuori dai magazzini una vestigia della guerra antiaerea del passato: il Vulcan, un cannone rotante a sei canne che spara 6.000 proiettili al minuto. Veniva usato anni fa, quando gli aerei volavano più lentamente, potrebbe tornare utile ora vista la bassa velocità dei droni. Per quanto riguarda il problema economico della lotta ai droni la grande speranza per il futuro risiede nei sistemi laser, i quali costano veramente poco; Israele ha in cantiere il sistema “Magan Or”, il quale è in fase di test e forse potrebbe entrare in azione tra un anno. Nel frattempo lo Stato ebraico continuerà a dover stringere i denti, con un sistema anti drone che al momento funziona intorno al 75%.
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