La politica estera di Donald Trump

 “Isolazionista”, “realista”, “sovranista-neutralista”, “jacksoniano a sua insaputa”. Per chi scrive, il tentativo generalizzato di applicare un’etichetta alla politica estera trumpiana porta a risultati vaghi di significato e sospettosamente carichi di retro pensieri ideologici. Abbandoniamo dunque le etichette e tentiamo invece un’analisi il più possibile fattuale di quella che potrebbe diventare la politica estera statunitense durante un eventuale seconda presidenza Trump.

Il quadro generale: Il principio guida di entrambi i partiti storici americani è stato quello per cui gli Stati Uniti potevano sentirsi al sicuro soltanto in un mondo controllato dalla democrazia americana e dai suoi alleati. In questa logica qualsiasi sommovimento planetario di rilievo diventava automaticamente un problema di sicurezza nazionale. La politica estera americana del periodo 2001-2021 è figlia sia delle Amministrazioni repubblicane che di quelle democratiche che si sono succedute alla guida del Paese e ad entrambe sono imputabili le relative conseguenze.

Tra il 2001 ed il 2021 gli Stati Uniti d’America hanno combattuto molte guerre (Afghanistan, Iraq, Libia, Somalia) perdendole tutte. L’unico successo è stato il rovesciamento del Califfato proclamato dallo Stato Islamico, con il successivo ridimensionamento –almeno per ora – dell’azione terroristica in occidente. Dopo tutte queste guerre i nemici degli Stati Uniti (e del mondo delle democrazie) sono risultati più forti e più aggressivi di quanto lo fossero 20 anni prima. Le guerre intraprese sono costate agli Stati Uniti cifre enormi, che avrebbero potuto invece essere utilizzate per sostenere l’economia interna di un Paese che è ormai lontano dal dominio economico assoluto che aveva negli anni ’70 del secolo scorso. Che dopo tale disfatta una nazione entri in crisi con la propria politica estera è cosa normale.

Trump: dalla guerra militare alla guerra economica: Il quadriennio della presidenza di Trump 2016-2020 ha avuto un imperativo categorico: non portare i soldati americani a combattere nuove guerre in giro per il mondo e non approfondire i conflitti in corso. Trump ha spostato la conflittualità americana dal piano militare a quello economico. Ha comminato una valanga di sanzioni commerciali alla Cina, alla Russia, all’Iran; ha minacciando sanzioni alla Germania di Angela Merkel per l’apertura del gasdotto “Nord Stream 2” che avrebbe dovuto trasportare il gas russo direttamente allo Stato tedesco; ha frantumato il protocollo NATO minacciando gli alleati europei se non avessero aumentato le proprie quote per spese militari almeno fino al 2% del PIL. E’ probabile che la leva economica rimarrà una caratteristica della politica estera trumpiana.

La Grande Strategia dell’Impero Romano: Fino a quando era possibile, Roma antica delegava il contrasto ai nemici che minacciavano l’Impero alle popolazioni federate che risiedevano a ridosso dei suoi confini. Non differentemente Trump ha tentato di promuovere un accordo generale tra i Paesi sunniti del Golfo ed Israele per controbilanciare l’espansionismo iraniano e permettere così agli Stati Uniti di disimpegnarsi dal medio-oriente. Allo stesso modo, se rieletto, chiederà ai Paesi alleati in Europa di occuparsi in prima persona, assumendosi i relativi costi politici ed economici, della minaccia espansionista Russa. Terrà lo stesso registro in Asia, domandando a Taiwan, Giappone, Australia e Filippine di caricarsi delle spese necessarie alla deterrenza dell’aggressività cinese.

La rottura con il passato: Trump aspira a diventare il Presidente di un’azienda denominata Stati Uniti d’America e promette di farla tornare di nuovo grande. Se questo è il suo slogan questo significa che per lui gli Stati Uniti ora navigano in cattive acque. Ebbene, non differentemente da qualsiasi amministratore delegato che deve risollevare una ditta in difficoltà, Trump deve imporre due limiti: il primo è di non lanciarsi in imprese che l’azienda non è realmente in grado di affrontare (come a lui accadde con la costruzione del casinò “Taj Mahal”); il secondo è dato dalla necessità di accumulare risorse per poter rendere nuovamente l’azienda competitiva.

In questo caso parliamo di risorse militari, l’Esercito Americano ha urgente bisogno di rimettere mano alle spese se vuole tenere il passo con l’impetuoso potenziamento dell’Esercito Popolare Cinese che sta avvenendo sotto ai suoi occhi.  Se decliniamo la logica di questa “politica aziendale” nel concreto della politica estera gli Stati Uniti dovranno quindi passare da ciò che è desiderabile a ciò che è possibile. Nella situazione data: il fatto che la Russia conquisti un 20% dell’Ucraina è una minaccia per la sicurezza nazionale americana? No. Tra l’America e l’Ucraina c’è di mezzo un continente e poi un oceano e i russi hanno dato una ben misera prova delle proprie capacità militari. Per contro l’intensificazione del conflitto promette di durare anni, costare centinaia di miliardi e comporta il rischio di una guerra nucleare, quindi che i russi si prendano pure un pezzo di Ucraina.

Lo stesso meccanismo potrebbe essere utilizzato da Trump se la Cina dovesse aggredire Taiwan o le Filippine. Nei confronti dell’Iran ci sarà da aspettarsi una rinnovata pressione sanzionatoria, accompagnata da una maggiore generosità di forniture belliche ad Israele e Arabia Saudita, ma per nulla al mondo Trump intenderà precipitare il conflitto tra USA e Teheran in una guerra aperta.
Abbiamo voluto qui descrivere i possibili sviluppi della politica estera americana nel caso di una rielezione di Donald Trump senza ricorrere agli “ismi”, con quel tanto di generico e di ideologico che questi portano con se. Non ci nascondiamo tutti gli interrogativi che questa politica estera solleva e tutti i rischi che comporta, soprattutto se dovesse protrarsi nel tempo. In futuro, se sarà il caso, potremo approfondire questi aspetti.

@riproduzione riservata