La partita a scacchi che Putin sta giocando contro il mondo intero lo ha visto nei giorni scorsi artefice di una mossa che potrebbe costare molto caro all’ultimo zar di Russia: la morte improvvisa, ma non casuale di un oppositore che, chi non conosceva prima, conosce sicuramene adesso Alexander Navalny. Attivista e politico russo, era a capo del partito Russia del futuro (partito liberale filo-occidentale, europeista e democratico) e presidente della Coalizione Democratica, in precedenza co- presieduta con Boris Nemcov (morto assassinato nel 2015). Il suo impegno politico principale è consistito nella strenua battaglia per portare a galla le brutali verità nascoste (intenzionalmente nemmeno troppo bene) dietro a quello che ormai unanimemente si definisce il regime repressivo totalitario russo espresso nella figura vertice di Vladimir Putin, colui che architettò “la seconda guerra Cecena” e si servì di quella strage per creare attorno a lui il consenso di cui aveva bisogno per conquistare la presidenza della Federazione. Il presidente russo è diventato così, secondo il suo auto racconto “L’uomo forte”, capace di dare vita alla narrazione della “Grande Madre Russia”, attraverso la quale vorrebbe, appunto, riunificare tutti i territori appartenuti all’URSS sotto un’unica bandiera.
Durante il suo attivismo politico Navalny ha più volte investigato, tramite la fondazione anti-corruzione legata al suo partito, su persone molto vicine al “cerchio magico” del leader russo, tra le altre anche su Alexander Bastrikinis (capo del comitato investigativo Russo), divenendo persona sempre meno gradita al regime, soprattutto per le sue posizioni contrarie riguardo all’annessione della Crimea prima e dell’invasione, iniziata il 24 febbraio 2022, dell’Ucraina poi, mettendo, di fatto, il bastone tra le ruote alla narrazione del sogno della Russia riunita raccontata da Putin.
Posizioni, queste, in un paese dove guerra non si può chiamare guerra, tanto pericolose da far rischiare la vita a Navalny già nel 2020. All’epoca si salvò solo perché il dosaggio del Novichok (veleno utilizzato dal Cremlino anche contro l’ex spia russa Sergej Skripal) era troppo blando e perché la moglie di Aleksander, Yulia, riuscì, salvandogli letteralmente la vita, a far trasportare il marito in un ospedale tedesco, dove fu confermata, contrariamente a quanto affermato dai medici russi, la presenza di tracce del veleno nel sangue. È a questo punto della storia che Navalny, il suo sogno e sua moglie, acquisiscono tutta la loro forza (e pericolosità): il momento in cui hanno deciso, consapevoli di quel che li avrebbe attesi, di tornare in patria.
Il 17 gennaio 2021 Navalny appena atterrato viene arrestato. Il 26 aprile 2021 il suo partito, dopo aver organizzato manifestazioni contro la detenzione dell’oppositore, è stato dichiarato dal tribunale di Mosca “organizzazione estremista” ed è stato chiuso. Dopo varie sentenze, il 4 agosto 2023, Navalny viene definitivamente condannato con l’accusa di “finanziamento ed incitamento all’estremismo e riabilitazione dell’ideologia nazista” ad un totale di 19 anni di detenzione. Da quel momento Navalny è stato più volte spostato senza mai preavviso, e a inizio dicembre 2023 si era parlato si “sparizione forzata”, a fine dicembre i suoi avvocati e i suoi familiari sono stati messi a conoscenza della sua nuova ubicazione, quella che diventerà la sua ultima casa: l’IK 3, vicino al villaggio di Karp, nella regione del Iamal-Nenets a 60 chilometri oltre il Circolo Polare Artico, e 1’900 chilometri a nordovest di Mosca. Se non sono riusciti a farlo sparire da vivo stanno riuscendo a farlo sparire da morto dato che il corpo dell’oppositore non si è ancora visto. La madre, lyudmila-navalnaya che ha seguito il continuo peregrinare del figlio da un carcere all’altro, accompagnata da un avvocato, arrivata all’obitorio di Salekhard “ha trovato tutto chiuso”, diverse le versioni sulla morte, dall’arresto cardiaco al pugno al cuore, diverse anche le possibili ubicazioni del corpo del quale non si hanno notizie certe. È di ieri la notizia che, secondo il Comitato investigativo russo (l’agenzia di polizia russa), sul corpo di Navalny deve essere fatto un «esame chimico» che potrebbe richiedere almeno 14 giorni. Eventualità questa non accettata dalla madre di Navalny che, dopo aver cercato in vari modi di vedere il corpo del figlio, ha presentato ieri denuncia presso il tribunale di Salekhard e sembra che per il 4 marzo sia stata fissata un’udienza a porte chiuse.
Secondo la vedova il marito è stato lentamente avvelenato dal Novichok e stanno trattenendo il corpo fino a quando i residui chimici della sostanza non saranno spariti. A distanza di poche ore dalla morte di Aleksander Navalny è chiara la volontà della moglie Yulia, salvatrice e prima sostenitrice del marito, di proseguire nella sua azione politica e di prendere le redini del sogno che entrambi hanno coltivato reso più forte da una valenza internazionale, dopo l’ennesimo sacrificio umano immolato sull’altare della madre patria Russia, ampiamente appoggiata. In quella che sembra la furia cieca di un politico che ha fatto delle pessime scelte strategiche per il suo paese (e anche per la sua persona) Putin ha mosso troppo avventatamente la pedina di scacco al re avversario senza accorgersi che quel che ha mangiato era solo la torre, che il re (il sogno) è salvo e che la regina è pronta a dar battaglia.
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