Intervista alla poetessa Sarai Shavit 

Sarai Shavit è poetessa, scrittrice, editor e presentatrice televisiva. Sue poesie sono state tradotte in Germania, Inghilterra, Francia e India

Sarai, quali esperienze personali ti hanno portato a diventare una scrittrice e una poetessa?

 Prima di tutto, forse iniziamo dal presente. L’ultimo anno è stato il più difficile della mia vita. La guerra del sette ottobre, e tutto l’orrore e il dolore che ha portato al popolo israeliano e palestinese, mi ha trasformato da donna felice a triste. Tuttavia, la mia guarigione è sempre stata la scrittura. Da bambina orfana leggevo libri senza sosta, tanto che Oliver Twist, Anna dai capelli rossi e Pippi Calzelunghe sono diventati per me una sorta di fratelli. A un certo punto, volevo entrare in una storia per non uscirne mai più. Così ho iniziato a scrivere. Da quando è iniziata la guerra, che spero finisca finalmente, scrivo per avvicinarmi al mio cuore e mantenere la mia sanità mentale mentre vivo in una zona di conflitto, mentre non so cosa accadrà domani e da dove arriverà il pericolo. La scrittura è anche uno strumento terapeutico per me, nel mio lavoro come insegnante di scrittura. Nell’ultimo anno ho lavorato con molte vittime della guerra, sia israeliane che palestinesi. La scrittura li aiuta a trovare una cura per l’anima e li connette con la forza vitale che c’è dentro di loro.

In che modo il tuo lavoro come editor ha influenzato la tua scrittura?

Non c’è nulla che ami di più in questo mondo dei dessert al cioccolato e dell’editing dei libri. Lo scrittore americano Stephen King, nel suo bellissimo e immortale libro “On Writing”, dedica l’introduzione al suo editor e afferma che scrivere è geniale, ma editare è divino. Sono cresciuta sotto le ali delle migliori editor della lingua ebraica, sia nel campo della prosa che in quello della poesia. L’editing mi impedisce di avere fretta di pubblicare. Mi fa immergere e soffermarmi su ogni bozza su cui lavoro. Nell’editing, il tempo non significa nulla, e il risultato è tutto. Mi identifico con questa frase. Anche nel mio libro pubblicato in Italia, l’editing curato è la seconda faccia del libro. Un ibrido breve, veloce e avvincente, tra prosa e poesia. Per scrivere una buona storia d’amore senza cliché, una buona

Puoi parlarci dell’importanza della traduzione nella tua carriera, specialmente dopo aver ricevuto il premio per la letteratura tradotta?

Molti scrittori nel mondo desiderano essere pubblicati, attraversare il mare e conquistare il cuore dei lettori. Ma la verità, forse meno affascinante, è che gli scrittori scrivono per se stessi. Entrano in una storia con una domanda, e la scrittura stessa è la sua decodifica, è la risposta. Anche nel mio libro Le Terre di Amora e di Assenza – volevo esplorare qualcosa di profondo riguardo al legame diretto tra morte e amore, quando questo si verifica attraverso la passione tra le persone. La scoperta che il libro ha parlato a così tante persone in Italia è stata oltre ogni immaginazione. E il premio – un sogno che non osavo neanche pronunciare ad alta voce. Per me, la lingua ebraica, la lingua sacra antica che ha sopravvissuto a guerre, esili, antisemitismo e che per anni non è stata parlata, ma solo durante le preghiere, è una lingua il cui uso stesso è un atto magico di incanto. Molti lettori italiani mi hanno detto che il libro tradotto sembrava essere stato scritto in italiano. Forse hanno riconosciuto nelle parole il mio grande amore per la terra del “stivale”, la passione universale che ho cercato di toccare, e soprattutto – sono grata per il magnifico lavoro fatto dalle traduttrici Sara Kaminski e Maria Teresa Milano. Presto il libro sarà pubblicato in Brasile e sono molto emozionata di vedere l’ebraico originale rinascere attraverso un’altra lingua, nuova.

Sarai, come hai visto evolvere l’atteggiamento verso le scienze ebraiche nelle università negli ultimi anni?

Nel 2025 insegnerò letteratura mediorientale all’Università di Torino, una città che ha visto non poche manifestazioni contro gli ebrei. Voglio fare una distinzione tra due tipi di manifestazioni che abbiamo visto lo scorso anno nelle università di tutto il mondo, soprattutto negli Stati Uniti. Ci sono manifestazioni che sostengono il popolo palestinese, e ci sono manifestazioni che hanno approfittato della guerra per far emergere un’antisemittismo terribile e represso, sotto la copertura del conflitto. Sebbene l’antisemitismo sia probabilmente un fenomeno eterno, e nonostante non concordi con le azioni del mio governo nei confronti del popolo palestinese – che separo completamente dai terroristi di Hamas e dai leader del movimento terroristico – l’antisemitismo è un fenomeno che va condannato. In Italia, ad esempio, ci sono università e istituti di ricerca che hanno interrotto i rapporti con ricercatori e scienziati israeliani. Chi vive in Israele sa che si tratta di una battaglia senza senso. I ricercatori, gli intellettuali, le persone delle università e della cultura – sono per lo più persone che sostengono la democrazia, l’uguaglianza, lo spirito umano e la soluzione dei due stati per i due popoli. Condannano con fermezza le uccisioni di massa che sono avvenute a Gaza, proprio come condannano le uccisioni avvenute il 7 ottobre in Israele. Sono le persone che devono salvare Israele e guidarla insieme al Medio Oriente verso una nuova via, anche dal punto di vista culturale. Per questo motivo sono contro il boicottaggio di qualsiasi tipo. Proprio per questa ragione non disprezzo i miei nemici e ho pubblicato poesie in lingua araba, inoltre sono coinvolta in progetti letterari binazionali. Citerò il mio amato scrittore norvegese Karl Ove Knausgård: “La letteratura e la conoscenza sono destinate alle persone, non agli stati”. Per questo motivo non mi identifico con il movimento BDS, pur comprendendo le sue motivazioni.

Qual è, secondo te, il ruolo degli scrittori durante i periodi di conflitto e guerra?

Chiunque abbia un talento, deve usarlo, aprire la bocca e parlare. Nel mio paese questo si vede ogni giorno sui giornali. Non di rado, scrittori di fama si esprimono coraggiosamente contro la guerra, utilizzando la loro straordinaria abilità nel formulare le parole per giustificare le loro argomentazioni. Purtroppo, la loro influenza sul mondo politico è molto limitata. Tuttavia, è importante ricordare che la letteratura ebraica, in tutte le sue generazioni, è stata profondamente legata al concetto di sionismo. I fondatori dello Stato di Israele e i suoi primi leader erano scrittori. Forse, se oggi i pensatori fossero i leader del paese, la sua situazione sarebbe migliore.

Cosa significa per te curare eventi culturali e come questi contribuiscono alla comunità?

 Oggi, nell’era in cui ci sono più smartphone e schermi e meno lettori di libri, mi impegno con dedizione a creare un legame tra la letteratura e il pubblico esterno. In ogni classe in cui entro a insegnare, in ogni conferenza che tengo, ho una missione: instillare nella giovane generazione l’amore per le parole in ebraico e per i libri in generale. Scrittrici italiane geniali come Margaret Mazzantini e Natalia Ginzburg hanno cambiato profondamente la mia vita spirituale quando le ho incontrate per la prima volta come lettrice adolescente. Voglio restituire qualcosa di tutto ciò alla società. Gli eventi che organizzo in Israele e all’estero partono sempre da un punto di partenza comune: l’amore per i libri. Accanto a questi, integro contenuti legati al cinema, al teatro e alla danza. Anche questi, non di rado, iniziano con le parole.

Puoi condividere la tua esperienza di pubblicazione del tuo libro in Italia durante un periodo di guerra?

In modo piuttosto fatale, la guerra del sette ottobre mi ha colta in un book tour in Italia. Pochi mesi prima era stato pubblicato dalla casa editrice Neri Pozza. Pochi mesi dopo, ho vinto il premio per la traduzione. La guerra locale e la mia storia d’amore universale sono diventate intrecciate tra loro. Ovviamente, non appena è scoppiata la guerra, tutto ciò che i lettori e i media italiani volevano sentire da me era cosa stesse succedendo in Israele. I miei genitori erano tra i fondatori del kibbutz Nir Oz, che è stato distrutto e dove la maggior parte dei suoi abitanti è stata uccisa o rapita, molti di loro sono ancora prigionieri oggi. Israele è un paese piccolo e la ferita della guerra è ancora dolorosa e continuerà a far male per anni. Non posso nemmeno immaginare cosa stia passando il popolo palestinese a Gaza e nelle diaspora. Prego per la pace. Sarà l’unica vittoria.

Come affronti l’antisemitismo nel tuo lavoro e nella tua vita quotidiana?

Quello che il sette ottobre ci ha dimostrato è che l’antisemitismo è un fenomeno eterno che è vivo e presente fin dall’inizio della storia e fino ad oggi. È un fenomeno terribile. Non solo antisemitismo, ma razzismo in tutte le sue forme. Un fenomeno che oscura la vista e annulla ogni possibilità di vedere l’anima umana con occhi umani. Ogni mattina apro i siti di notizie e leggo rapporti di antisemitismo da tutto il mondo, e mi sembra di vivere nel 1939. Spero che quando finirà questa guerra sanguinosa, anche l’antisemitismo svanirà con essa.

Qual è stata la tua motivazione nell’avviare progetti educativi sulla poesia nelle scuole superiori?

Quando ero una studentessa, la cosa che amavo di più a scuola erano gli incontri organizzati con scrittori e scrittrici, una o due volte all’anno. Entravo silenziosamente nella piccola biblioteca e mi sedevo. E da quel momento, bevevo avidamente le loro parole. Ognuno ha bisogno di un modello sotto forma di persone o parole. La scrittura è uno strumento, e la poesia in particolare è uno strumento vincente. La poesia è un testo che contiene molta potenza emotiva e messaggi sociali, ed è per lo più scritta in versi brevi e concentrati. La poesia moderna, colloquiale, è una poesia con cui si può lavorare nel sistema educativo, e questo è ciò che faccio come facilitatrice di scrittura. Il progetto più interessante che ho realizzato in questo ambito è stato lavorare con ragazze a rischio provenienti da una scuola che stava fallendo in un quartiere molto difficile. Abbiamo introdotto lezioni di scrittura e laboratori di poesia all’interno dell’orario scolastico. Ben presto queste lezioni sono diventate le loro preferite, e lentamente hanno iniziato a condividere le loro storie di vita e a chiedere aiuto. Il culmine è stato quando una ragazza con una storia di vita molto difficile, che era stata ricoverata in un reparto psichiatrico durante il semestre, ha ottenuto un permesso speciale per uscire dal reparto chiuso con l’accompagnamento di un’infermiera e partecipare alle lezioni. Momenti come questi nemmeno la letteratura può inventarli. Solo la vita.

Quali messaggi speri di trasmettere attraverso le tue opere letterarie?

Voglio che le persone ridano e piangano per le storie e le poesie che scrivo. Che raggiungano intensità emotive elevate, e poi tornino alla loro vita con nuove intuizioni. Non sono sicura che la letteratura debba avere un messaggio, ma piuttosto ricordare alla persona che legge che è umana, che è un essere umano. I sentimenti sanno fare questo.

Come hai scelto i temi delle tue opere poetiche e narrative?

Penso che, essendo cresciuta in una zona di guerra e vivendo tra e dentro guerre terribili, sceglierò sempre di scrivere sull’amore. L’amore è sia un escapismo, ma anche una guarigione. E mi sembra che i miei lettori abbiano bisogno di entrambe le cose.

Cosa hai imparato dai tuoi collaboratori internazionali e dai festival letterari che hai curato?

 Prima di tutto, ho imparato ad avvicinarmi con grande rispetto a ogni cultura alla quale non appartengo. Abbassare la soglia di sospetto e affinare la capacità di ascolto. In secondo luogo, ho imparato a vedere la forza dell’arte nel connettere le persone e nell’aggirare i conflitti. Circa un mese fa, ho partecipato a un seminario ebraico sulla letteratura del Medio Oriente all’Università di Cambridge, dove ho tenuto una conferenza su storie ebraico-palestinesi insieme alla dott.ssa Rawya Borbera, un’editor araba con cui sto lavorando a un progetto comune. Nel pubblico c’erano ebrei, cristiani, palestinesi, di ogni tipo. E molto rapidamente tutti hanno trovato un punto in comune molto forte: l’amore per la letteratura. Non vivo in un mondo utopico. È chiaro che la situazione nel mio paese e nei paesi circostanti è terribile e purtroppo non ha una vera soluzione. Ma la pace inizia dalle piccole cose. Dalla collaborazione tra i paesi. Dai progetti culturali. Se non cerchiamo di migliorare, cosa stiamo facendo qui?

Quali sono le sfide più grandi che hai affrontato come donna nel campo della letteratura e della cultura?

Oh. La mia sfida è quotidiana, come quella di ogni donna moderna che conosco. Come si conciliano il lavoro, la creatività, il tempo per la famiglia e crescere i bambini? Come si fanno andare tutti questi palloni in aria contemporaneamente? Lavoro duramente su molti progetti contemporaneamente, 24 ore su 24, a un ritmo frenetico. Eppure, guadagno circa il trenta percento in meno di quello che un uomo talentuoso guadagnerebbe facendo esattamente lo stesso lavoro. La mia sfida è fare la mia cosa senza averne paura. Ascolto ancora la voce di mia madre, che era una donna single e che ha costruito una carriera in un mondo di uomini, darmi consigli: Non aspettare che chiamino il tuo nome. Inizia. Apri la bocca.

Quali sono i tuoi progetti futuri e cosa speri di realizzare nel tuo percorso artistico? Io ho avuto la fortuna di leggere un tuo racconto molto interessante…

Il mio prossimo progetto è un romanzo impossibile che si svolge durante il periodo del mandato britannico e anche ai giorni nostri. Una storia d’amore coinvolgente che spero di completare e scrivere nei paesaggi dell’Italia, quelli amati, antichi e accoglienti.

@riproduzione riservata