di Andrea Atzeni
Un paio di settimane fa la Rai ha mandato in onda l’ultimo film di Amelio. La memoria non può non correre a quando, due anni fa, con l’uscita della pellicola nelle sale, presero a fioccare certe stroncature apparentemente scollegate ma ben concordi fra loro. In Rete se ne possono da allora leggere alcune decine, e qualcuna fu subito recepita e canonizzata al paragrafo “Inesattezze storiche” della voce dedicata a Il signore delle formiche dal libero enciclopedismo di Wikipedia. Non intendevano difendere il grottesco reato di plagio, per fortuna, neppure in versione omofoba, ma il buon nome dello storico “organo del partito comunista italiano”. A nulla è servito al film dichiararsi “liberamente ispirato a fatti accaduti”, rifuggire da qualsiasi posa documentaristica, adottare nomi di fantasia con l’unica eccezione di Aldo Braibanti, mettere in scena idee creative di valenza emblematica. Neppure si tratta dell’irrisolta e irrisolvibile disputa accademica circa i giusti dosaggi nei “componimenti misti di storia e d’invenzione”. Secondo alcuni critici il film falsifica deliberatamente la realtà sia dei singoli fatti sia del contesto politico e culturale dell’epoca per manipolare, se non proprio per plagiare, l’ingenuo spettatore.
Al contrario di quel che fa intendere il film, non sarebbe infatti vero che “l’Unità” era poco o punto interessata alle sventure dell’imputato, che ne relegasse scarse notizie in cronaca nera, che bandisse sistematicamente la parola “omosessuale”, che avesse repulsione della relativa condizione, che adottasse la locuzione “grande partito operaio” per non macchiare il PCI, che anteponesse la mobilitazione contro la guerra del Vietnam a quella per i diritti civili, che avesse contatti con delegati sovietici, che questi potessero mostrarsi omofobi (“Non ricordo che il comunismo post staliniano perseguitasse gli omosessuali”, arriva a dichiarare qualcuno). Non solo nessun giornalista fu licenziato per essersi troppo appassionato alla vicenda, lo stesso direttore in persona firmò un impeccabile editoriale, che di conseguenza oggi è orgogliosamente riproposto tale e quale in innumerevoli riedizioni su Internet. A sincerarsi della verità non servirebbe neppure immergersi in polverose emeroteche, basterebbe consultare l’archivio on line del quotidiano. Purtroppo però, si rammaricano alcuni, ben pochi lo faranno.
È vero anche l’inverso. Chi è disposto a credere in una malevola faziosità difficilmente farà ulteriori controlli. Se tuttavia l’archivio lo si consulta davvero, si è portati a formarsi un’opinione un po’ diversa. Aldo Braibanti viene arrestato il 5 dicembre 1967. Il giorno dopo “l’Unità” non riporta il fatto, denuncia invece in prima pagina, con tanto di fotografia del noto pediatra “prof. Spock mentre viene arrestato”: “Arrestati Spock e Allen Ginsberg. Manifestavano per il Vietnam”. Notizia ampiamente ripresa all’interno: “Forte protesta contro la guerra nel Vietnam. Centro di reclutamento bloccato da seimila giovani a New York”. C’è la foto di un “noto attore negro americano” e i titoli segnalano che anche Huxley, Spender e Ustinov si uniscono alle proteste. Se intanto in Italia c’erano già mobilitazioni di intellettuali contro il processo, il quotidiano non ce lo dice.
Il 12 giugno 1968 inizia il processo. L’indomani esce finalmente una mezza colonnina senza firma sulla vicenda. È in basso a pg. 5, tra un paio di rapine, qualche omicidio, il maltempo e altra piccola cronaca. L’accusa (“soggiogò due studenti”) è definita “singolare” e “impossibile da dimostrare”. Senza fare nomi si riferisce della “stima degli ambienti culturali che si sono schierati dalla sua parte al momento dell’arresto”. L’imputato fu partigiano e “iscritto alcuni anni a un partito operaio”: è scritto proprio così, sull’organo dello stesso PCI, manca solo il “grande” che si sente nel film. Nei giorni successivi escono altri trafiletti, sempre in cronaca e senza firma, con qualche trascrizione dal dibattimento. Il 17 giugno, pg. 5, si chiarisce che Braibanti fu “dirigente locale di un partito operaio negli anni immediatamente precedenti e seguenti la fine della guerra”. Nelle domande del PM e del giudice come nelle risposte dell’imputato stavolta compaiono esplicitamente il sesso e l’omosessualità, per cui è indispensabile una forzata e imbarazzata premessa: “Fin qui non vediamo il plagio sostenuto dall’accusa. Ma è bene, nonostante l’argomento sia delicato, affrontare la intera situazione: Braibanti con almeno uno dei due giovani ebbe rapporti omosessuali”.
Articoli più ampi firmati “p. g.” compaiono il 6, 9 e 12 luglio in cima alle pp. 8, 7 e 5. Nei primi si segnalano le testimonianze di amici e conoscenti, tra cui uomini di cultura, come i fratelli Bussotti e i fratelli Bellocchio. Nel terzo si riportano le parole dell’avvocato difensore Leopoldo Piccardi, tra le altre torna quella particolarmente delicata: “questo non può essere né un processo alle idee né un processo all’omosessualità”. Almeno compare pure il vero oggetto dell’accusa.
Il giorno dell’ultima udienza, il 13 luglio, esce l’ormai ben noto fondo del direttore Maurizio Ferrara (condirettore con Elio Quercioli, per la precisione, ma il direttore responsabile era Nicolino Pizzuto), ed è in prima pagina. Anche la pg. 6 è in buona parte occupata da due altri interventi sullo stesso argomento. Torna un paio di volte la parola “omosessualità”, ma anche stavolta solo entro citazioni virgolettate: del professore, senatore e psicanalista Adriano Ossicini, e dell’avvocato della difesa Ivo Reina. Mentre “p. g.” si azzarda a scrivere soltanto di “processo alle idee e alle tendenze particolari dell’imputato”. Il 15 luglio il caso è di nuovo in prima pagina (il giorno precedente era domenica e il giornale non usciva) e prosegue in ultima: “Braibanti condannato a 9 anni!”. Il testo è stavolta firmato per esteso da Paolo Gambescia.
Per ritrovare la vicenda dobbiamo spostarci al 4 gennaio 1969, quando Ottavio Cecchi a pg. 3, nell’attualità, espone polemicamente le motivazioni della sentenza appena rese pubbliche: “L’assurda motivazione… Una serie di citazioni arbitrarie… L’art. 603 ereditato dalla legislazione fascista deve essere abolito”. Si insiste sulla storia antifascista di Braibanti e sul carattere dispotico del fantomatico reato (si ripete che “non sarebbe stato condannato né per le sue idee né per le sue pratiche omosessuali”). Poi occorre fare un salto al 4 novembre 1969 (intanto la direzione è passata a Giancarlo Pajetta). A pg. 5 un articolo di nuovo a firma “p. g.” riferisce del prossimo giudizio d’appello: “Decine di uomini di cultura hanno affermato che il processo è stato fatto solo alle idee di Aldo Braibanti e alla omosessualità praticata dallo scrittore filosofo”. Il 7 e il 16 novembre due altri contributi di “p. g.” confidano che i nuovi testimoni sentiti e le palesi contraddizioni di un vecchio accusatore dovrebbero portare a un ribaltamento della sentenza. Il 28 novembre invece la condanna è confermata. Il giorno seguente esce un lungo pezzo a pg. 5 con la firma non abbreviata di Paolo Gambescia, che ribadisce quanto il reato contestato sia tipicamente fascista e possa colpire chiunque. Infine il 30 settembre 1971 la Cassazione conferma la condanna a quattro anni. Il giorno dopo, il caso Braibanti torna ancora per l’ultima volta, con una mezza colonnina senza firma a pg. 5 (mentre in prima pagina si legge di “Attacchi delle forze patriottiche nel Sud Vietnam e in Cambogia”).
Si dirà che nel frattempo in redazione il direttore non ha licenziato nessuno, ma neppure il film in realtà ci presenta alcun autentico licenziamento, e non è neppure detto che il personaggio interpretato da Giovanni Visentin rappresenti il direttore e non per esempio un caporedattore. Peraltro sulle reali dinamiche interne al quotidiano forse qualcosa potrebbero testimoniarlo ancora in tanti, a partire dallo stesso Gambescia, oppure anche da Ferrara, non più Maurizio ma suo figlio Giuliano, che giovanissimo all’epoca partecipava alle proteste della contestazione, come la Graziella del film.
Resta il fatto che nessuno comunque difende l’amore tra due uomini. Ci si avvicina forse soltanto l’accenno critico di Ossicini circa “l’atteggiamento espresso da più parti, durante il dibattimento, contro l’omosessualità, presentata come una malattia e come un reato”. Gli altri escludono il reato ma non la malattia. Gambescia la prende larga: con certe idee e tendenze “anche su famiglia e sesso… non tutti concorderebbero”, così che l’accusa “si aggrappa ad esse ed al dissenso che possono provocare per ottenere una condanna che, in sede di argomentazione giuridica, sarebbe impossibile”. Per l’avv. Piccardi “il fenomeno deve essere osservato sotto l’aspetto clinico”. Per Ferrara va ricondotto a “drammi e contraddizioni laceranti”, a una vicenda “soprattutto dolorosa… di infelicità e di crisi individuali e sociali”, di “malessere della famiglia tipo”, di giovanili “forme di crisi e di rivolta”, che “talora assumono aspetti sconcertanti”. Per l’avv. Reina “l’omosessualità è la semplice inclinazione di un uomo verso un altro uomo… Inclinazione che secondo le più valide teorie nasce da malformazioni genetiche o da motivi ambientali. La omosessualità non può essere frutto dell’induzione, è una scelta deliberata… L’anormalità è l’unica cosa che” unisce Braibanti e le sue presunte vittime. Per giunta il PCI allora era legato a doppio filo al comunismo internazionale (le stesse manifestazioni per il Vietnam vanno lette sotto questa luce: il confronto con l’attualità andrebbe fatto in modo opportuno), e basterebbe consultare di nuovo Wikipedia per scoprire che in URSS era in vigore il famigerato art. 121 del Codice penale, sulla base del quale “dal 1935 ai primi anni del 1980 sono stati condannati, sulla base dell’articolo 121, circa 1.744.273 uomini gay”.
Bisognerà aspettare il 1972, anno successivo all’ultima condanna in Cassazione, per la cosiddetta “Stonewall italiana”, la clamorosa protesta del FUORI! (e non certo dell’ARCI o affini) contro il congresso omofobo di sessuologia di Sanremo. Mentre è del 1977 la manifestazione a Mosca del fondatore della stessa associazione, Angelo Pezzana, contro l’arresto per omosessualità del “sovietico” Sergej Parajanov (in realtà Parajanyan, armeno ma nato a Tbislisi e a lungo attivo in Ucraina). Ancora un regista troppo libero per il perbenismo conformistico ufficiale.
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