Il prezzo del silenzio in Russia: Naval’nyj eliminato, i giudici premiati

Dalle celle di isolamento alle promozioni nei tribunali: come il sistema punitivo russo trasforma la repressione in merito

In Russia, anche il silenzio diventa un’arte. O meglio, lo è la capacità di far tacere chi osa alzare la voce. Aleksej Naval’nyj, il principale oppositore del Cremlino, lo sapeva bene: la sua prigionia nella colonia penale IK-6 si era trasformata in un laboratorio di repressione sistematica, una moderna macchina punitiva che ricorda i Gulag descritti da Solženicyn.

A novembre, la BBC russa aveva riportato i dettagli di una prigionia orchestrata per piegare Naval’nyj fino alla morte. Ogni azione era pianificata con cinismo, ogni condizione studiata per annientare psicologicamente il dissidente: trasferimenti continui in isolamento punitivo (SHIZO), negazione di cure mediche, compagni di cella trasformati in strumenti di oppressione.

Come Andrej Tatarčenko, detenuto privato di sapone, carta igienica e persino del diritto di acquistare beni essenziali nel negozio della prigione. Tatarčenko veniva collocato nelle celle di Naval’nyj con il preciso scopo di esasperarlo, trasformando la convivenza in un incubo quotidiano. “Era come vivere con un barbone nel peggior stato animale”, aveva raccontato Naval’nyj. Ma ogni ricorso contro queste condizioni veniva respinto, con una puntualità che oggi acquista un retrogusto particolarmente amaro.

Kirill Nikiforov, il giudice che aveva respinto sistematicamente i ricorsi del dissidente contro le condizioni della colonia IK-6, è stato promosso a giudice del Tribunale Regionale di Vladimir. Un avanzamento di carriera che il giornale Dovod non ha mancato di sottolineare, portando alla luce una realtà che non sorprende: in Russia, il merito non si misura in giustizia, ma in fedeltà. Dopotutto, chi meglio di Nikiforov poteva rappresentare l’efficienza del sistema?

Questa promozione non è solo il simbolo di un sistema che premia chi garantisce il silenzio: è l’ennesima prova di una catena di complicità che rende il sistema giudiziario russo non un arbitro della legge, ma un pilastro della repressione. Ogni rigetto, ogni “niet” ai ricorsi di Naval’nyj, è diventato un trampolino di lancio per la carriera del giudice. Un esempio perfetto di come, nel Cremlino di Putin, la lealtà al potere sia più importante della giustizia.

Non sorprende che, negli ultimi due anni, Naval’nyj abbia trascorso oltre 300 giorni in isolamento punitivo, privo di beni essenziali come abiti invernali o farmaci per curare l’ipertensione e i dolori cronici. “Non uscirò vivo da queste mura”, aveva confidato alla moglie Julija in uno degli ultimi colloqui. E così è stato: nel marzo 2024, tre mesi dopo un trasferimento in una colonia oltre il Circolo Polare Artico, Naval’nyj è morto.

Nel frattempo, la macchina repressiva non si è fermata. Tre avvocati di Naval’nyj – Vadim Kobzev, Aleksej Lipsker e Igor Sergunin – sono stati arrestati con accuse di estremismo. Altri due, Aleksandr Fedulov e Ol’ga Michajlova, sono stati inseriti nella lista dei ricercati. Anche i colloqui tra Naval’nyj e i suoi legali erano stati censurati, con il vetro della stanza dei colloqui sigillato con nastro adesivo per impedire ogni contatto visivo.

Questa rete di oppressione, brutalità e privazione dei diritti umani non è solo una condanna per chi osa opporsi al Cremlino: è un monito per chiunque voglia difendere la libertà in Russia. Le mura delle prigioni, come quelle dell’IK-6, non sono semplicemente un mezzo punitivo: sono il cuore pulsante di una macchina che annienta ogni resistenza, trasformando la dissidenza in un crimine da espiare con l’annientamento umano.

E per chi contribuisce a mantenere questo sistema, come Kirill Nikiforov, ci sono premi e promozioni. Dopotutto, in un sistema costruito sull’oppressione, anche un giudice può diventare un eroe. Basta sapere da che parte stare.