Guerra di Gaza: la situazione sul campo

“Rafah è piena zeppa di tunnel, solo negli ultimi giorni ne ho trovati 17. Non c’è quasi nessuna casa senza un tunnel, sono stati anche praticati dei buchi nei muri per collegare tutte le case tra di loro”. Queste sono state le parole con cui Yair Zuckerman, il comandante della Brigata Nahal, ha spiegato ad un ristretto gruppo di giornalisti la situazione che l’Esercito con la Stella di Davide si è trovata di fronte dopo l’invasione della città ai confini con l’Egitto. Dalle parole di Zuckerman traspare un certo stupore, Rafah è disseminata di tunnel ancora più estesi e ramificati di quelli scoperti a Gaza città od a Khan Younis. Rafah agli occhi delle truppe israeliane appare deserta, ed in superficie lo è, ma sotto di essa le squadre di Hamas si muovono continuamente; una piccola formazione di combattenti, 4 o 5 persone, percorre i tunnel, sbuca da un pozzo alle spalle dei soldati israeliani, lancia una granata anticarro con un RPG e riscompare sottoterra. Le case sono state minate, Hamas mette l’esplosivo ovunque, nella culla dei bambini, in una scarpiera, poi piazza una telecamera da quattro soldi sulla porta di entrata – va benissimo anche la telecamera per la retromarcia di un auto – e aspetta, quando i soldati delle IDF entrano nell’appartamento il comando a distanza fa saltare in aria tutto. Il colonnello Liron Betito, che comanda la Brigata Givati, ha dichiarato che il sistema migliore per capire se un battaglione di Hamas è stato annientato consiste nel comprendere se tutti i tunnel in cui quel battaglione operava sono stati distrutti; ma trovare i tunnel è molto difficile, gli strumenti elettronici arrivano a scandagliare solo fino a pochi metri di profondità, e sono ancora meno efficaci su un terreno sabbioso che assorbe maggiormente le onde del radar.

L’unico sistema che davvero funziona consiste nel trovare il pozzo di un tunnel, infilarsi nelle gallerie e percorrerle tutte. Bonificare in questo modo un area estesa prende moltissimo tempo, oltre a richiedere un controllo pressoché totale del territorio superficiale. Gli ufficiali israeliani hanno evidentemente l’ordine di non dare tempistiche ai giornalisti, ma – a dispetto delle dichiarazioni del Primo Ministro, il quale un giorno sì e l’altro anche dichiara che “Hamas sta quasi per essere sconfitta” – qualche dichiarazione è sfuggita: per la bonifica dei tunnel a Rafah alcuni graduati hanno ipotizzato sei mesi, altri hanno parlato di operazioni fino alla fine del 2025. Eppure Rafah, dal punto di vista israeliano, vale il sacrificio; Rafah è la giugulare di Hamas, è dal confine con l’Egitto che passa il grosso delle sue forniture militari, e a questo proposito forse vale la pena di fare una puntualizzazione: i molti analisti che hanno già deciso che Israele non vincerà a Gaza, perché una guerriglia appoggiata da gran parte della popolazione non può essere sconfitta con le armi, portano ad esempio il Vietnam e l’Afghanistan, ma dimenticano una differenza fondamentale tra il Vietnam, l’Afghanistan e la Striscia di Gaza: Gaza è un’area sufficientemente piccola da poter essere “sigillata” agli aiuti esterni, il Vietnam e l’Afghanistan non lo erano.

Shejaia e Khan Younis: le reinvasioni. Il fatto che l’Esercito Israeliano ritorni nelle aree che aveva dichiarato come conquistate alcuni mesi fa non deve trarre in inganno, una guerra è fatta di adattamento e contro-adattamento e Israele aveva a suo tempo messo in conto le incursioni a cui assistiamo in questi giorni. La tattica di Hamas a Gaza consiste nello spingere Israele ad occupare la Striscia. Quando Yahya Sinwar dice: “Gli israeliani sono ora lì dove dovrebbero essere” intende proprio questo. Il progetto del “Macellaio di Khan Younis” (questo soprannome glielo hanno dato i palestinesi, non gli israeliani) consiste nel creare uno scenario in cui i soldati di Israele, a tempo indefinito, andrebbero ad esaurirsi nel tentativo di controllare un vasto ambiente urbano ostile pullulante di guerriglieri. Israele sa che non deve cadere in questa trappola ed agisce di conseguenza.

Hamas ha attuato un rapido adattamento dopo l’invasione israeliana della Striscia: se le stragi del sette ottobre 2023 sono state effettuate da un vero e proprio esercito (la Barriera di Separazione venne sfondata quasi in contemporanea in 21 punti), dopo la reazione dello Stato ebraico Hamas si è riconvertita a formazione di guerriglia; non cerca di tenere il territorio, sposta in gran parte i suoi militanti dalle aree attaccate per evitare le perdite e li disperde su aree più tranquille dove possono poi riorganizzarsi. Il ragazzo in maglietta ed infradito che passeggia in una strada di Gaza centrale non ha bisogno di essere armato, le armi sono lì a due passi, in un basamento, nella fossa di un ascensore condominiale, nella botola di un garage; pronte a essere prelevate quando gli arriverà un ordine. In questo modo identificare il nemico per Israele diventa impossibile, l’unico modo per colpirlo è lasciargli uno spazio apparentemente “libero” in cui raggrupparsi, e poi colpirlo con la massima celerità. Quando le IDF hanno effettuato il raid dei giorni scorsi a Shejaia – che è nel cuore di Gaza città – per giungere al luogo dell’operazione hanno impiegato 40 minuti; quando invasero Shejaia per la prima volta per arrivarci ci misero una settimana. Siamo propensi a credere che questo gioco “al gatto e il topo” durerà ancora molto, perché entrambe le parti in conflitto vi si sono preparate. In questo senso chiudiamo con una facile profezia: Hamas presto lancerà attacchi dalle aree umanitarie o “aree sicure” che dir si voglia, come Al Mawasi. In realtà lo sta già facendo; i suoi uomini sono già con i mortai tra le tende degli sfollati.

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