Nella tarda serata di lunedì 23 settembre 2024, poco prima delle 23.30, Roua Nabi, una donna di 34 anni e madre di due figli, è stata brutalmente uccisa dall’ex marito, da cui era separata. L’uomo, residente non lontano, nonostante il divieto e indossando il braccialetto elettronico che avrebbe dovuto allertare le forze dell’ordine, è riuscito a raggiungerla. L’ha accoltellata a morte con un solo fendente al polmone.
Il delitto è avvenuto a Torino, in via Cigna, tra i quartieri Aurora e Barriera di Milano, durante una lite che ha segnato l’ennesimo episodio di una lunga spirale di violenza. I sanitari del 118 e della Croce Verde di Villastellone, chiamati da un vicino, sono intervenuti per soccorrerla, ma le sue condizioni sono apparse subito critiche. Trasportata d’urgenza all’ospedale San Giovanni Bosco, è deceduta poco dopo l’arrivo. Un dramma che riporta tristemente in primo piano il tema della violenza domestica che sfocia in tragedia.
Ben Alaya Abdelkader, 48 anni, anch’egli di origine tunisina, nonostante fosse soggetto a un divieto di avvicinamento emesso solo un mese prima, è comunque riuscito ad avvicinarla. Tuttavia, quella notte, nulla è riuscito a fermarlo, nemmeno la presenza dei due figli della coppia, testimoni impotenti dell’omicidio della madre. La figlia 12enne, terrorizzata, è corsa dai vicini per chiedere aiuto, mentre il figlio di 13 anni ha tentato disperatamente di fermare il padre, inseguendolo in strada e invocando l’aiuto dei passanti. L’uomo è stato infine arrestato dai carabinieri del nucleo radiomobile a poche centinaia di metri dal luogo del delitto, mentre tentava di scappare.
Questa tragedia riaccende il dibattito sull’efficacia delle misure di protezione per le donne vittime di violenza domestica. Solo il mese scorso, Roua era stata inserita in un programma di tutela che prevedeva un divieto di avvicinamento per l’ex marito. Secondo i dati del Ministero dell’Interno, nel 2024 i casi di femminicidio sono aumentati del 6% rispetto all’anno precedente. Nei primi mesi dell’anno, 88 donne sono state uccise da partner o ex partner, un dato preoccupante che dimostra quanto la violenza di genere continui a rappresentare una grave piaga sociale.
Il fallimento dei braccialetti elettronici è stato più volte evidenziato dagli esperti. Questi dispositivi, che dovrebbero monitorare la distanza degli aggressori dalle vittime, non sono sempre sufficienti. In alcuni casi, i dispositivi si sono rivelati difettosi o il monitoraggio non è stato tempestivo.
Dietro ogni numero, c’è una storia di dolore, di grida inascoltate. Come nel caso della vittima di via Cigna, spesso le denunce non bastano a fermare i carnefici. Secondo l’Osservatorio Nazionale sulla Violenza di Genere, quasi il 70% delle donne vittime di femminicidio aveva già denunciato il proprio aggressore prima dell’atto finale. Questo significa che molte di loro avevano cercato aiuto, senza però ottenere una protezione sufficiente.
Quante altre vite devono essere spezzate prima che qualcosa cambi davvero? Fino a quando si continueranno a piangere vittime di un sistema che non funziona?
Il femminicidio non è solo una questione di numeri o statistiche: è una ferita aperta che ogni giorno si allarga sempre di più. E mentre si discute di nuove misure legislative, come quelle promosse dalla senatrice Susanna Campione (Fratelli d’Italia) per inasprire le pene contro i reati di violenza domestica, la realtà continua a essere spietata. Ogni vita spezzata è un fallimento collettivo, un segnale che ci ricorda che la strada da percorrere è ancora lunga.