Considerazioni sulla terza guerra del Libano

Erano 50 anni esatti da che Israele non rischiava la fine della propria esistenza, ora quel pericolo e tornato e i suoi leader ne sono consapevoli. Qualsiasi valutazione sulle decisioni e le azioni che la dirigenza di Israele sta intraprendendo non può non tenere conto di questo fatto. La Patria non era in pericolo né durante la Seconda Intifada, né durante l’Operazione Piombo Fuso, né durante l’Operazione Margine Protettivo e tantomeno durante la Guerra del Libano del 2006; ora lo è. In questi 11 mesi abbiamo visto la messa in pratica di quell’ “Anello di Fuoco” concepito a suo tempo dal Generale iraniano Kassem Soleimani: assediare da molti fronti un Paese piccolo, con un esercito piccolo, attraverso una lunga guerra di attrito, fino a svuotarlo di ogni risorsa. Il piano è molto ben concepito e fa leva su due punti deboli dello Stato Ebraico: gli ebrei di Israele sono numericamente pochi (circa sette milioni e mezzo) e scontano in occidente un pregiudizio, così antico da non essere neanche più percepito, che – al minimo – si manifesta attraverso la percezione degli ebrei “come un fastidio”. Soprattutto quando combattono. Più che mai quando vincono.

L’ “Anello di Fuoco” mira al lento dissanguamento e al lineare aumento dell’isolamento internazionale di Israele, (quella stessa trappola che ha sconfitto gli americani in Vietnam e non solo). Lo Stato ebraico sa che per uscire dalla trappola deve fare quello che sa fare bene: guerre relativamente brevi e ad altissima intensità, per questo ha deciso di attaccare i propri nemici uno a uno, con la massima potenza di fuoco, cercando di degradarli subito in grande misura in modo da “spezzare l’anello”. Dopo aver ridotto quello che fu Esercito di Hamas a Gaza ad un gruppo di guerriglieri sulla difensiva, Israele si è rivolto al fronte nord attaccando Hezbollah in modo radicale. Israele sa che se vuole rompere “L’Anello di Fuoco” che gli è stato creato intorno deve essere veloce. Per questo rifiuterà tregue di 15, 21 giorni, o quant’altro, oppure cessate il fuoco momentanei, pause diplomatiche o simili. La questione qui non è né caratteriale, né psicologica e non ha nulla a che fare con “l’amore per la pace”; Israele ha il tempo che gli gioca contro ed è cosciente del fatto che ogni dilazione nei combattimenti agevola i suoi nemici mortali, mentre invece la sua necessità assoluta è quella di sottrarsi a una lunga guerra di attrito che lo vede sfavorito.

EQUAZIONE ROVESCIATA

Nel giro di 15 giorni Hezbollah ha visto il suo intero vertice decapitato, ha subito perdite materiali e logistiche importanti ed ha smesso di essere visto come il “Babau” del Medio-oriente, tanto capace di spaventare i suoi nemici in Occidente e quelli (tanti) sia in Libano che in Medio-oriente, quanto capace di rendere audaci i suoi alleati e i suoi protettori. Ma soprattutto Hezbollah nel giro di 15 giorni ha smesso di essere ciò per cui era stato concepito: in caso di guerra tra l’Iran e Israele (ed eventualmente Stati Uniti) Hezbollah doveva essere il più avanzato strumento di difesa dell’Iran. Ieri l’equazione si è addirittura rovesciata: da rete di protezione in caso di guerra Hezbollah è diventato il “grilletto” che fa scoppiare la guerra. A Teheran in queste ore avranno molto a cui pensare.

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