Come (non) capire il conflitto in Medio Oriente

di Andrea Atzeni

L’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI), lunedì 30 ottobre e martedì 7 novembre, ha proposto a tutte le scuole superiori un paio di incontri on line, dal titolo Capire il conflitto in Medio Oriente: Come siamo arrivati fin qui? Le origini del conflitto israelo-palestinese e Cosa può succedere? Le possibili evoluzioni del conflitto. Sono soltanto i primi dei “7 incontri per capire di più” del ciclo “Un mese di guerra Israele-Hamas”. I successivi sembrano svolgersi tutti nella sede dell’Istituto e non mirare a un pubblico più vasto, magari giovanile, per cui qui li tralasciamo.In Rete si può verificare che l’iniziativa scolastica è stata segnalata almeno da Sole 24 Ore, Famiglia Cristiana e Tecnica della Scuola; rilanciata in diversi istituti di Milano e Brescia; caldeggiata dall’Ufficio scolastico regionale della Lombardia.

A detta dell’ISPI, hanno seguito in diretta centosettantamila studenti, anche dall’estero. Tutte le scuole avranno accettato la proposta a scatola chiusa in perfetta buona fede. Ma, dopo averla somministrata ai propri alunni e valutata con attenzione, nessuno sembra aver finora avvertito la necessità di tirare le somme. Le registrazioni sono ora liberamente reperibili su Youtube, dove risultano altre decine di migliaia di visualizzazioni.

Vediamole dunque.

Gli organizzatori mettono subito le mani avanti.

Paolo Magri, vice presidente dell’ISPI, al principio ammonisce, con Eschilo, che in guerra la prima vittima è la verità. Promette relatori “umili”, niente certezze marmoree, quasi ci fossero i buoni da una parte e cattivi dall’altra, ma solo strumenti per capire le ragioni degli uni e degli altri, sapendo che non ci sono scuse per la violenza. Bisogna essere umili, ripete, perché è facilissimo cadere in semplificazioni faziose, mentre più si allarga lo sguardo più ci si accorge che colpe o ragioni non sono attribuibili a una sola parte. Non può mancare pure la citazione di papa Francesco, secondo il quale in guerra perdono tutti.

Anche Alessia De Luca, advisor ISPI, che modera tutti gli interventi, invita a cercare di capire come siamo arrivati qui, e ad elevarci sopra il dibattito attuale che appare polarizzato.

Francesco Rocchetti, segretario generale ISPI, si rivolge ai giovani, che vivono l’età delle passioni e l’urgenza di dover a tutti i costi scegliere da che parte stare. Riconosce il loro diritto di empatizzare e identificarsi con chi vive il conflitto. Che tuttavia non è né bianco né nero, è complesso, occorre ascoltare ciò che raccontano i vincitori ma anche i vinti. Cercare di capire questa complessità, dice, è quel che cerca di fare all’ISPI. Si può scegliere da che parte stare ma insieme conservare la capacità di ascoltare anche chi non la pensa come noi. Questo il primo passo per arrivare alla pace.

Le loro promesse di complessità e pluralismo se non di imparzialità si rivelano tuttavia ben presto una excusatio non petita. L’improbabile sforzo di porre necessariamente i contendenti sullo stesso piano porta a omissioni, forzature e stravolgimenti dei fatti. Tutti i relatori si attengono agli stessi reticenti equivoci. Parlano di una non meglio precisata Palestina e di palestinesi, che, lo dice la parola stessa, ne sono gli unici legittimi abitanti. E il bilancio si conclude insinuando o dichiarando apertamente ogni volta la colpevolezza ebraica.

Magri si chiede pensoso quanto occorra andare indietro nel tempo per avvicinarsi alla verità. Non basta certo fermarsi al “vile disgustoso attentato di Hamas”. Infatti, dopo averlo lasciato perdere, le sue diverse ipotesi puntano sempre e solo contro Israele: il biblico passaggio del Mar Rosso addirittura, poi un balzo fino all’Olocausto, la costituzione dello stato ebraico su territori palestinesi dopo la II Guerra Mondiale, i conflitti degli ultimi decenni, l’occupazione di Gaza e Cisgiordania da parte degli israeliani, gli attentati, la segregazione di più di due milioni di palestinesi a Gaza, i crescenti insediamenti di coloni israeliani negli altri territori. Per cui il sostegno senza linee rosse agli interventi militari israeliani di molti Paesi occidentali aumenterà ulteriormente le crepe con il Sud del mondo che ci accusa sempre più di avere doppi standard. È la stessa tesi ribadita da Mario Del Pero, docente universitario e ricercatore associato ISPI, che sostiene occorra mostrarsi più equidistanti. L’immagine degli USA nella crisi infatti è quella di un attore troppo schiacciato sulle posizioni dell’alleato israeliano.

De Luca ricorda l’assalto dei “miliziani del gruppo armato palestinese Hamas” e l’uccisione di millequattrocento persone, poi passa all’assedio totale a Gaza, lo “scambio” ogni giorno di razzi, il bilancio di un altro migliaio di morti, “di cui la metà bambini”. Lamenta che oggi questo territorio è a corto di acqua carburante viveri, tanto che si teme una catastrofe umanitaria. Che per ora la comunità internazionale non si è messa d’accordo per chiedere un cessate il fuoco, mentre si rischia che la guerra possa allargarsi all’intero Medio Oriente. A un certo punto, con Rania di Giordania, si chiede che differenza ci sia tra uccidere una donna e il suo bambino con un fucile d’assalto o con un bombardamento aereo, “come sta facendo Israele”. Questo è ciò che si chiedono tutti gli arabi. In molti fanno confronti con l’Ucraina e denunciano disparità di trattamento, due pesi due misure, il double standard.

Dichiara quindi che la legge del 2019, definisce Israele come stato “esclusivamente” ebraico, disconoscendo quindi parità di diritti agli arabi israeliani, che vivono in Israele e che rappresentano il 20% della popolazione. Che si è consentita la costruzione di innumerevoli insediamenti israeliani nei territori palestinesi, considerati illegali dal diritto internazionale. Di fatto, sostiene, i tanti insediamenti che spezzettano il territorio palestinese rendono impossibile la creazione di un futuro Stato e quindi impediscono negoziati di pace sulla base del principio due popoli due Stati. Denuncia che Netanyhau, pur di garantirsi l’impunità dalle accuse di corruzione e frode, punta sul sostegno dell’estrema destra fino a includere nell’attuale governo personaggi apertamente razzisti e fanatici, dando alle formazioni di estrema destra carta bianca nei confronti dei palestinesi, favorendo l’aumento di violenze e raid e accendendo la miccia delle tensioni in Cisgiordania e a Gaza, così ha anteposto i propri interessi personali, ha diviso la società israeliana, rafforzato gli estremisti palestinesi e interrotto il dialogo coi palestinesi più moderati.

Anche Valeria Talbot, responsabile Osservatorio Medio Oriente ISPI, insiste sulle difficoltà di sfollamento per la popolazione civile, sul fatto che i bombardamenti israeliani colpiscono anche obiettivi civili. Secondo il Ministero della Sanità di Gaza tra le oltre 10 000 vittime ci sono migliaia i bambini. Secondo Israele le strutture militari usano coperture civili. La Cisgiordania è “territorio palestinese abitato sia da palestinesi sia da coloni israeliani”. Ad accrescere le violenze sono le milizie palestinesi, “che si sono create per difendere i palestinesi”, e dall’altra parte la politica di espansione territoriale delle colonie portata avanti dal governo più di destra, che ha fatto accrescere malcontento e tensione sociale.

Così Chiara Lovotti, analista ISPI, sostiene che i vicini arabi non sono andati molto d’accordo con Israele proprio per la questione palestinese, perché Israele si insedia nei territori della Palestina storica e quindi questo va a danno dei palestinesi che in quell’area vivevano: ora che vediamo quello che sta succedendo a Gaza e in Israele capiamo che chiaramente il processo di normalizzazione e di pace non ha poi portato così lontano però è vero che è stato un momento rilevante, significativo. A sentir lei, Netanyahu, “nuovo presidente israeliano” vincitore delle elezioni nel 1996, è tra i responsabili del fallimento dell’accordo di pace di Oslo. Anzitutto il 60%, quindi “gran parte dei territori palestinesi della Cisgiordania” sono sotto il controllo di Israele. Nella Cisgiordania si trovano anche “le famose colonie”, quindi “gli insediamenti israeliani in territorio palestinese”, ritenuti illegali dal diritto internazionale che vieta proprio il trasferimento di civili in territori occupati, e la Cisgiordania è occupata, sotto occupazione militare israeliana dal 1967. Il numero di coloni tra l’altro è cresciuto costantemente e molti di essi purtroppo, soprattutto quelli più ideologizzati, negli ultimi decenni si sono resi protagonisti di atti di violenza ai danni dei palestinesi. L’ultimo anno e mezzo in particolare ha visto un aumento vertiginoso dei casi di violenza in Cisgiordania. Già a settembre il 2023 risultava l’anno più sanguinoso per i palestinesi dal 2005 e questo è dipeso in larga parte dalle politiche dell’attuale governo israeliano che ha condotto operazioni militari di ampia portata in città importanti come Jenin e Nablus. Ma appunto anche i coloni stessi si sono resi responsabili di atti di una violenza che sinora non si era mai vista.

Gabriella Colarusso, inviata di Repubblica, che almeno chiama “strage” quella del 7 ottobre, ripete che “qui in Libano si lamentano per il doppio standard dell’Europa, che si preoccupa e piange per i morti in Ucraina ma non si preoccupa delle vittime palestinesi”. Con Jumblatt critica Macron che propone una coalizione internazionale contro Hamas e poi il cessate il fuoco: non ci sono più i leader di una volta: Berlinguer, Craxi, Andreotti. Non c’è più la capacita di mediare e di parlare col mondo arabo. Uno dei leader di Hamas ha pure osservato che l’Italia non ha detto nulla sui “crimini israeliani a Gaza”. Questa però è propaganda, perché invece tutti si sono espressi contro “l’uso sproporzionato della forza”.

Pure Mattia Serra, analista ISPI, ripete che le “colonie” sono considerate illegali dal diritto internazionale, che vieta a un paese occupante, Israele in questo caso, di insediare la propria popolazione in territori occupati, come Gaza e Cisgiordania occupati dal 1967: 700 000 israeliani vivono in quelli che dovrebbero essere i territori palestinesi, poiché negli ultimi anni i governi israeliani hanno favorito la nascita delle colonie, con la creazione di una situazione di fatto che condiziona eventuali trattative di pace. Sono uno dei motivi per cui la risoluzione della questione israelo-palestinese è così complicata. La soluzione a due Stati è difficilmente applicabile in un contesto in cui i territori arabi sono delle isole circondate da territorio israeliano. A questo si aggiunge il fatto che una parte dei coloni ha deciso di vivere lì per motivazioni ideologiche e che spesso è disposta a utilizzare la forza per imporsi sui palestinesi.

Paolo Maggiolini, ricercatore associato ISPI, risale alla Gran Bretagna mandataria che, a suo dire, avrebbe avuto il compito di “amministrare la Palestina del Mandato o Palestina storica”, e di “gestire il movimento sionista e la popolazione palestinese”, che cominciavano a “scontrarsi”. La risoluzione ONU avrebbe accontentato i sionisti, ma disatteso tutte le speranze e richieste della parte palestinese, che “rifiuterà per ragioni di demografia, territorio, e di natura storica”. Con la guerra si compì quindi la Nakba, la catastrofe soprattutto del popolo palestinese anche se condivisa dagli arabi, cioè settecentocinquantamila rifugiati, oggi ne contiamo oltre cinque milioni, la mancata fondazione di uno Stato palestinese e la distruzione di tanti villaggi e della presenza storica sul territorio della Palestina del mandato. Da qui nasce per molti anni il desiderio di una liberazione completa e di uno scontro senza soluzioni intermedie o pacifiche con lo Stato di Israele. La guerra del 1967 apre un nuovo capitolo che dura ancora oggi, è la storia dell’occupazione dei territori, di Cisgiordania e della Striscia di Gaza, ed è la storia di un nuovo flusso di rifugiati, tra duecentocinquanta e trecentomila, e nuove distruzioni.

Paolo Maggiolini è l’unico a ricordare che gli israeliani hanno lasciato Gaza, dopodiché però “Israele costruirà una serie di infrastrutture in modo da controllarne accesso e uscita”. Dal 2007 la Striscia è sotto embargo. L’allentamento avviene soltanto per ragioni strategiche o tattiche del momento. Tutto questo vi rende la vita molto dura, molto difficile, la popolazione dipende non solo militarmente ma economicamente fisicamente e in tutto e per tutto da Hamas e dallo Stato di Israele. Nel 2008 e 2009 ha luogo una operazione massiccia anche via terra 2012, ancora superiore quella del 2014. Tutte quelle illusioni di poter dimenticare la Striscia di Gaza, di poter dimenticare il nodo politico intorno ad essa sono stati ampiamente dimostrati come falsi e questo già lo si evidenziava nel 2021, con una escalation di violenza molto più ampio che aveva coinvolto la Cisgiordania, Gerusalemme Est e anche Gaza, con Hamas che ai tempi era intervenuto massicciamente col lancio di razzi proprio nella prospettiva in difesa di Gerusalemme e in difesa della Cisgiordania. Ecco la Striscia di Gaza arriva lungo questo canovaccio nel 2023 quando nuovamente Hamas ha usato gli stessi argomenti per lanciare la sua operazione del 7 ottobre. Quindi vediamo le molteplici storie di questo piccolissimo territorio risultato del conflitto, risultato di tutte le fasi del conflitto ancor più potremmo dire della Cisgiordania, in cui non risiedono in realtà soltanto persone originarie di Gaza, anche tanti che hanno abbandonato nelle guerre che abbiamo ricordato il territorio della Palestina storica o mandataria sotto Israele per rimanere nell’area ma mettersi al riparo dagli scontri.

Gianluca Ales, Giornalista, Sky Tg24, deve meglio chiarire “che cos’è il movimento che si proclama di resistenza islamica palestinese”. Finalmente riconosce trattarsi di un’organizzazione terroristica di ispirazione islamista, perlomeno “così viene definita dall’Unione Europea, dagli Usa, dal Canada, da gran parte dei paesi arabi”, che ha compiuto “i gesti e gli atti” che abbiamo conosciuto. Ma, però, forse… “bisognerebbe approfondire la conoscenza di questa formazione che si chiama Movimento di Resistenza Islamica e capire perché il parallelismo con l’Isis e con Al Qaida forse non è del tutto appropriato, questo non significa giustificare le loro azioni ma significa comprendere appieno il tipo di nemico con cui ci dovremo misurare”. Ha al suo interno le brigate Ezzedin al Qassam, l’ala militare, ma questo è qualcosa che nelle formazioni del Medio Oriente, pensate a Hezbollah, è qualcosa di molto comune, molto frequente, il che non è in contrasto contraddizione col fatto di considerarsi un partito politico, pensate che Al Fatah, il partito che governa fondamentalmente Ramallah, ha la sua ala militare, la brigata dei Martiri di al Aqsa. Fu fondata da tre personaggi, che rappresentano al suo interno le sue anime: Yassin un teologo, che “morirà nel 2004 ucciso in un raid che sarà condannato dalla comunità internazionale”; Kalid Meshal, che fa parte dell’ala pragmatica del movimento ed è squisitamente un politico; Ismail Haniyeh, che viene considerato oggi il leader di Hamas. Poi c’era Mahmud Zahar, che rappresentava l’ala più combattente e militare. Meshal “ha tentato più volte di lanciare segnali di dialogo o comunque di disponibilità a valutare altre ipotesi, tanto che dall’inizio si considerava che nello statuto di Hamas era presa in considerazione soltanto la cancellazione dello stato di Israele, ma poi Meshal disse invece di essere disponibile a valutare una soluzione che prevedesse di rientrare nei confini del ’67, e quindi ammettendo implicitamente l’esistenza non dello stato di Israele ma di quella che loro chiamano l’entità sionista”. L’obiettivo finale, e questa è la cosa importante che segna la differenza rispetto al passato e comunque soprattutto ai movimenti islamisti come al Qaida e come ISIS, è che “il loro fine non è il Jihad globale, cioè non è la rivoluzione, la conversione totale di tutto il mondo, ma semplicemente la riconquista del loro territorio”.

Ugo Tramballi, giornalista e senior advisor ISPI, si incarica di parlare degli accordi di Oslo e del loro fallimento: siccome dopo la pace con l’Egitto i palestinesi restano soli, nel senso che il conflitto si restringeva alla questione tra israeliani e palestinesi, proprio per questo nacque la prima intifada. Più che una rivolta armata, fu civile, fatta di scioperi e problemi umanitari posti in modo che non potessero essere ignorati. Gli stessi israeliani si accorgono allora che bisogna trovare una soluzione, così si arriva a Oslo, non tramite USA o URSS ma grazie alla Norvegia, paese pacifista che riuscì a fare questo miracolo. Bisognava fare una cosa per volta, ma in questa gradualità gli estremisti dell’una e dell’altra parte usarono l’arma del terrorismo minando la buona volontà. Il primo attentato fu commesso da un estremista religioso ebreo, Rabin fu assassinato da un altro estremista religioso ebreo. La seconda intifada (Intifada vuol dire scrollarsi di dosso, come il cane bagnato) scoppiò perché non si vedevano risultati, ma nel frattempo i palestinesi vedevano nella Cisgiordania una occupazione che non veniva meno perché gli israeliani continuavano a costruire colonie, negli otto anni di trattative che funzionavano gli israeliani raddoppiarono le colonie e il numero dei coloni. Tutto questo portò alla crisi per colpa dell’ambiguità di Arafat e degli israeliani. Alla nascita e crescita dei due fronti estremisti religiosi nazionalisti, Hamas da una parte e la Destra israeliana nazionalista e religiosa. Israele creò un muro di separazione, così Israele rubò altra terra ai palestinesi e così non si arrivò a nulla. Nel frattempo, la situazione si parcellizzò, l’autorità palestinese moderata di Fatah perdeva consenso e cresceva il consenso di Hamas perché tutti vedevano che l’occupazione non finiva ma Hamas combatteva.

Siccome poi l’occupazione continuava, in maniera brutale, perché Israele continua a intervenire in Cisgiordania militarmente di notte arrestando uccidendo, mentre i coloni crescono di numero e sono sempre più armati. Ora poi il governo di Israele è diventato di estrema destra, alcuni partiti che erano prima fuori legge in Israele sono oggi al governo, partiti che vogliono eliminare la questione palestinese cacciando i palestinesi e annettendo tutti i territori occupati. I palestinesi nella maniera più brutale possibile ma disperata (questo dimostra anche che la brutalità è anche un modo di manifestare il livello della propria disperazione) ci hanno ricordato che la questione palestinese esiste, l’hanno ricordato principalmente anzitutto agli israeliani, e adesso tutto il mondo improvvisamente scopre che la questione palestinese è sempre rimasta lì e lì rimane finché non verrà risolta. Oggi da un lato c’è Hamas che mette al centro Dio e il nazionalismo e dall’altra ci sono i partiti ultra nazionali religiosi che sono al governo in Israele, sono molto violenti, sono i partiti dei coloni e sono armati e sono stati in questi giorni ancora più armati del solito, e renderanno se non impossibile sicuramente sanguinoso il tentativo di arrivare a un’equa spartizione e a una pace definitiva.

@riproduzione riservata