Letti, sedie ricoperti di pelle di vacca e alberi che producono lavatrici sono protagonisti dell’ultima mostra all’Hangar Bicocca, dove le intuizioni dell’artista Chen Zhen (1955, Shanghai – 2000, Parigi) prendono forma in installazioni ibride e cariche di metafore da decifrare.
Short-circuits’ (cortocircuito), curata da Vincente Todolí, riunisce per la prima volta oltre venti installazioni su larga scala di una delle figure principali del panorama artistico internazionale, a vent’anni dalla morte del pittore. Presentate nei 5.500 mq delle Navate e nel Cubo della Fondazione, tramite un percorso che viaggia in parallelo con la biografia dell’artista e la sua ricerca verso un’eterogenea analisi estetica, mostrano il tentativo di riappacificare l’inconciliabile.
L’intensa vita di Chen Zhen
Le incongruenze che Chen Zhen tenta di risolvere attraverso la sua arte vanno di pari passo con gli eventi che si verificano nel corso della sua vita. Nato s Shangai in una famiglia di dottori, a 25 anni – in piena rivoluzione culturale – scopre con la diagnosi di un’anemia autoimmune che non gli resta molto da vivere. È forse questa la ragione che lo porta a fare massimo uso di ogni minuto prezioso, cercando nuove mura domestiche in longitudini opposte, dal Tibet all’Europa, stabilizzandosi infine a Parigi – città in antitesi con le tradizioni del paese del Fiume Azzurro – fino alla morte prematura a 45 anni. Lo sforzo nell’adattarsi a due mondi opposti è frutto di una metamorfosi fondamentale che lo porterà a coniare il termine ‘trasnesperienze’ – ovvero il tentativo di sperimentare e sintetizzare in profondità situazioni e abitudini appartenenti a luoghi discordanti.
Poco più di dieci anni di carriera artistica che valgono come mille: in Francia Chen Zhen decide di mettere da parte la pittura per dedicarsi a installazioni concettuali. Ogni oggetto della quotidianità è sradicato dal suo proposito convenzionale e collocato in una condizione straordinaria. L’intenzione è quella di fare pace con gli opposti, trovare un paradigma estetico dove collettivo e individuale, interiorità e esteriorità si intersecano forgiando un linguaggio nuovo ed esemplare, condiviso tramite l’intuizione e la meditazione.
La mostra all’ Hangar Bicocca
Ad aprire le danze all’Hangar, Jue Chang, Dancing Body – Drumming Mind (The Last Song), (2000), accosta seggiole che riproducono l’immagine di un gigante strumento musicale a percussione. L’imponente installazione si attiva attraverso una performance: i ballerini invitano lo spettatore a interrogarsi sui processi metaforici di malattia e guarigione, attraverso la riproduzione di movimenti effettuati in medicina cinese.
L’oriente, considerato come la culla della civiltà, del progresso e evoluzione dell’uomo, viene contrapposto con un occidente legato al concetto di tramonto e decadenza – idee contrastanti, allo stesso tempo complementari. Come in Fu Dao / Fu Dao, Upside-down Buddah / Arrival at Good Fortune (1997)dove un albero è ricolmo di oggetti ‘figli’ del consumismo di massa e della globalizzazione (cavi, elettrodomestici) che ‘germogliano’ dalla pianta generosamente; mentre i buddha, simboli di buon auspicio nella cultura cinese, sono lasciati a penzolare a testa in giù.
Più ci si addentra nel mondo di Chen Zhen e più le riflessioni si fanno assolute: in Purification Room (2000), l’artista si interroga sul significato del tempo e dell’esistenza stessa. L’installazione ripropone uno scenario gelido, un ambiente ostile e monocromatico dove ogni oggetto è ricoperto da uno spesso strato di argilla. La creta, usata fin dall’antichità, si addensa e nasconde i disastri del passato – racchiudendo allo stesso tempo il simbolo della creazione divina.
L’invito alla catarsi finale è lasciato all’ultima installazione, Jardin-Lavoir (2000): 11 letti contenenti oggetti d’uso quotidiano sono ricoperti d’acqua fino all’orlo, attraverso un sistema idraulico in moto perenne – un assoluzione finale che depura spirito e corpo, e chiude il cerchio lasciando alla natura l’ultima parola.
Chen Zhen pensava che i suoi lavori dovessero rappresentare un autoritratto – come artista, il suo sogno era quello di riuscire ad analizzare sé stesso e gli altri, di ‘diventare un dottore’. Dopo due decenni, all’interno della nostra cultura intrisa di selfie e fake news, le sue metafore ed esortazioni a una guarigione ci lasciano perplessi. Il problema non è loro semplicità, ma la nostra indolenza nell’assimilarle, e in questo Chen Zhen è certamente riuscito nel suo intento – le sue opere non possono che giovare alla nostra salute.