Hanno destato parecchio scalpore le recenti dichiarazioni del calciatore Leonardo Bonucci, con le quali lo stesso ha manifestato a chiare lettere la sua intenzione di voler intentare un’azione giudiziaria, di natura risarcitoria, contro la Juventus, rea, a suo dire, di aver tenuto, nei suoi confronti, un comportamento lesivo della sua dignità professionale e della sua immagine. E’ noto, infatti, che il giocatore, durante la preparazione estiva, era stato messo “fuori rosa” poiché non più rientrante nei piani sportivi della società bianconera.
La risoluzione consensuale del contratto
Sentitosi tradito e deluso dalla sua (ex) squadra (nelle cui fila ha militato per diversi anni), Bonucci l’aveva quindi costituita in mora, atteso che riteneva essere stato leso il suo diritto di potersi allenare con il resto dei compagni della prima squadra, visto che gli era stato consentito di allenarsi soltanto in modo individuale. Negli ultimi giorni di mercato, l’intervenuta risoluzione consensuale del contratto (con annessa “buonuscita” elargitagli dal club torinese nella misura di circa due milioni di euro) ed il suo conseguente accasamento presso la squadra tedesca dell’LFC Union Berlin, sembrava aver posto fine alla querelle tra le due parti.
Ecco perché questa recente “uscita” del calciatore sulla sua accennata volontà di dar corso ad un’azione giudiziaria per ottenere il risarcimento dei lamentati danni alla sua professionalità ed alla sua immagine appare davvero sorprendente. Tale essendo il quadro fattuale, risulta lecito chiedersi se l’eventuale azione risarcitoria del calciatore potrebbe trovare accoglimento dinanzi all’autorità giurisdizionale.Tutto dipende dall’interpretazione dell’art.7 del vigente accordo collettivo stipulato tra la F.I.G.C., la Lega Nazionale Professionisti Serie A e l’Associazione Italiana Calciatori.
A tenore di tale disposizione, il calciatore ha diritto di partecipare agli allenamenti e alla preparazione precampionato con la prima squadra, salvo il caso di sue inadempienze.
Orbene, alcuni ritengono che il club di appartenenza, per non incorrere nella violazione della suddetta norma, debba semplicemente garantire al calciatore messo fuori rosa (o meglio “non più rientrante nei piani sportivi della società”, visto che la terminologia “fuori rosa”, che è d’uso corrente, è in realtà inappropriata alla luce del fatto che essa non trova nessun riscontro nella legislazione vigente) il solo allenamento individuale ma non anche quello con il “gruppo squadra”.
In realtà, a nostro parere, questa interpretazione, oltre a non essere conforme al dato letterale della disposizione suindicata (la quale, difatti, richiama espressamente agli allenamenti con la prima squadra) risulta in palese contrasto con la stessa ratio ispiratrice della norma.
A tal proposito va sottolineato che tale disposizione è stata pensata proprio allo scopo di tutelare la dignità professionale del calciatore, onde evitare, pertanto, che questi possa subire atteggiamenti potenzialmente vessatori dal proprio datore di lavoro nel corso dell’attività lavorativa che il giocatore è chiamato a porre in essere in forza di un contratto di lavoro subordinato regolarmente sottoscritto dalle parti.
Nel caso di specie, il calciatore esplica la propria attività per conto del club non soltanto come singolo ma all’interno di un gruppo (come parte integrante e necessario dello stesso), essendo il calcio uno gioco di squadra in cui il risultato sportivo dipende dall’armonico movimento dei protagonisti in campo. E’ proprio questo inoppugnabile dato fattuale che induce a ritenere, oltre all’accennato dato letterale, che al calciatore vada comunque concessa la possibilità di allenarsi col gruppo-squadra. Allenandosi in modo esclusivamente individuale, difatti, il giocatore potrebbe via via vedere venir meno le sue capacità di interagire correttamente con i propri compagni di squadra, andando incontro, pertanto, ad un processo di dequalificazione.
Detto che le doglianze del calciatore appaiono fondate in una prospettiva giudiziaria, resta però un grosso interrogativo sulla vicenda in quanto viene spontaneo chiedersi come sia possibile che il calciatore possa avanzare delle pretese risarcitorie dopo che lo stesso ha trovato un accordo per la risoluzione consensuale del contratto con la propria ex squadra.
In questi casi, infatti, è d’uso comune inserire nelle transazioni la clausola di “rinuncia ad ogni e qualsivoglia ulteriore pretesa risarcitoria” (c.d. clausola di “null’altro a pretendere”) discendente dal rapporto contrattuale definito. Posto che appare davvero strano che la Juventus non abbia preteso la sottoscrizione di una tale clausola a fronte di una buonuscita di due milioni di euro concessa al giocatore, si fa davvero fatica a comprendere come quest’ultimo abbia potuto esternare queste velleità risarcitorie. Non ci resta che vedere, pertanto, se il calciatore passerà davvero dalle parole ai fatti o se la sua resterà soltanto un’azione “dimostrativa” dettata dal risentimento nei confronti della sua ex squadra.
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