Minari

Una famiglia di emigrati coreani si trasferisce dalla California all’Arkansas. Il padre, stanco di lavorare in una polleria, vorrebbe diventare un agricoltore. Lo slancio vitale dell’uomo non è accettato di buon grado dalla sua famiglia e soprattutto dalla moglie che preferirebbe una soluzione cittadina.

Arrivati nella casa roulotte i quattro, con loro ci sono i due figli, dovranno combattere con vicissitudini personali che li metteranno a dura prova. Dopo qualche tempo arriverà dalla Corea la nonna, capace con il suo pragmatismo creativo di fare da collante fra tradizione e innovazione nelle menti dei suoi cari. Ambientato negli anni 80 Minari, è un romanzo di formazione sul sogno americano in grado di inquadrare perfettamente le personalità di chi ha abitato quel tempo e quel pezzo d’America.

Sullo schermo c’è essenzialmente una coppia d’immigrati che ha assimilato il diritto alla felicità trasmettendolo ai figli in modo da permettere loro di migliorarsi. Jacob, il padre, è un uomo disposto a rischiare per emanciparsi totalmente da una vita mediocre attraverso la sua mentalità imprenditoriale. Un film grazioso che descrive perfettamente episodi della vita di un contadino creativo e della sua famiglia a cavallo tra la tradizione, rappresentata dalla nonna e le nuove abitudini che un decennio portava in dote.

Il Minari è una pianta usata nella cucina asiatica che ha la capacità di attecchire a qualsiasi terreno proliferando rigogliosa.  Un inno su pellicola alle brave persone che hanno saputo negli anni tenere viva la terra delle opportunità. I dialoghi sono divertenti, soprattutto quando in scena ci sono i personaggi indigeni che si dimostrano di ottimo cuore con Jacob e tutta la sua famiglia. Un lavoro parzialmente autobiografico che il regista confeziona come una personale riflessione sul passato. Un film dalle atmosfere evocate carico di malinconia e coraggio.