C’era una volta un uomo per il quale perdere era il più grande degli affronti. Un bambinone a cui era stato sottratto il giocattolo del momento. Un Paese sconfinato, nella fattispecie. A distanza di 10 giorni dall’elezione di Joe Biden negli Stati Uniti, Donald Trump non ha ancora ammesso la sua sconfitta. Al contrario, a colpi di infuocati tweet inveisce contro la frode di cui è stato vittima. Non usa la parola “vittima”. Non lo farebbe mai. Piuttosto enfatizza altre parole in maiuscolo e con punti esclamativi, in messaggi postati sui social a una frequenza inquietante.
E in un momento in cui, negli Stati Uniti, di tutto c’è bisogno tranne che di ulteriore instabilità, Trump ha intenzione di imbarcarsi in una battaglia legale dai costi stratosferici in termini monetari ma soprattutto sociali ed economici, destinata a lasciare il Paese sospeso per dei lunghi mesi. Un assurdità, come dar fuoco a un palazzo che è già sul punto di crollare.
Concessioni
Per la prima volta, domenica scorsa, Donald Trump ha scritto in un tweet le parole “ha vinto”, riferendosi a Joe Biden. Per poi correggersi poco dopo, aggiungendo: “Ha vinto solo agli occhi dei FAKE NEWS MEDIA. Non concedo NIENTE! […]”.
Nell’uso del verbo “concedere”, il riassunto di chi abbiamo davanti. Un uomo che si crede al di sopra di tutto e tutti, che crede di poter possedere tutto e tutti. Che non vede davanti ai suoi occhi un Paese in profonda crisi, da proteggere e risollevare, ma solo la sua privilegiata posizione messa in dubbio. Peggio, eliminata. È la sua battaglia personale la sola a contare. Riuscire a rivendicare la sua vittoria, l’unico obiettivo da raggiungere.
La verità è che osservare la reazione di Donald Trump mette un po’ di tristezza. Un Presidente uscente che non telefona nemmeno al suo concorrente per delle congratulazioni avvelenate, magari, ma diplomaticamente necessarie. Che sembra aver deciso di occupare la Casa Bianca e si rifiuta di fare le valigie. Sì, fa tristezza. Ma la radice di questa sua attitudine è ben profonda.
Ammissione di colpa (sconfitta)
Donald Trump ha 34 anni quando, cercando aiuto su un investimento immobiliare, fa la conoscenza dell’avvocato Roy Cohn, scaltro uomo d’affari che diventerà poi più un mentore che un socio. Che l’ha ispirato, influenzato, plasmato. Insegnandogli, tra le altre cose, a non ammettere mai una sconfitta, a non chiedere mai scusa, avanzando e mostrandosi a testa alta nel bene come nel male.
A passare oltre e dissimulare, nelle dichiarazioni, le eventuali débâcles con le vittorie. Così come succede negli Anni 90, quando Atlantic City, la sua scommessa multi-milionaria di un complesso di casinò, va in bancarotta. Nemmeno in quel caso Trump ha mai ammesso di aver fatto male i calcoli. Di aver sbagliato.
Le conquiste di un winner
Nessuna intenzione, qui, di negare la spiccata intelligenza o il savoir faire di quest’uomo. La scaltrezza, lungimiranza e, last ma di certo non least, lo spropositato ego che gli hanno permesso di andare lontano. Di arrivare fino alla Presidenza degli Stati Uniti, ottenuta cavalcando ancora una volta la giusta onda al giusto momento.
Ma si sa, per arrivare così in alto, spesso, bisogna anche avere la capacità di calpestare chiunque intralci la propria via, e di utilizzare quelli di cui si capisce di poter aver bisogno. Di saper sfruttare. Senza rimpianti, senza empatia. Sentendosi superiori, invincibili. Considerando gli altri come dei subordinati dal valore a scadenza. Persino i propri più stretti collaboratori, da far fuori come niente, una volta diventati scomodi.
La solitudine della sconfitta
Oggi, lo stesso Donald Trump che tutto può, si vede sfrattato dalla White House, primo Presidente dal ’92 a non essere riconfermato per un secondo mandato. Perdendo contro un uomo con cui non ha niente a che vedere. Un vero politico, sì, ma che ha commesso anche lui i suoi errori, che sembra accusare particolarmente l’età avanzata e che è ben lontano dal carisma dell’imprenditore. Joe Biden, con buone probabilità votato da molti con il solo obiettivo di liberarsi di Trump. Una scommessa, da parte degli Stati Uniti, per finirla con questa barzelletta di cattivo gusto.
In molti hanno accolto la notizia della sua vittoria, 4 anni fa, con incredulità. Sarà per via della sua notorietà come imprenditore e assoluto novello della politica. Sarà per la sua stramba maniera di esprimersi, per il suo tono di voce, il suo fare spocchioso. Per le sue uscite improbabili – quella del gel da iniettarci tutti contro il Covid resta da premio – per la sua immagine talmente lontana da quella che un Presidente degli Stati Uniti dovrebbe proiettare.
Un duro colpo, anzi durissimo
Non è passato inosservato l’improvviso ingrigirsi dei capelli di Trump, un paio di giorni fa in conferenza stampa. Perdere le elezioni deve aver colpito duro, è stato il commento più comune. E molto probabilmente, a ragione. I dispiaceri, si sa, possono avere ripercussioni sul fisico delle persone. Nel caso di Donald Trump, poi, si fa fatica a quantificare la mortificazione di fronte alla sconfitta.
Per quanto non si riesca a provare pena nei confronti di un uomo che ne ha calpestati parecchi altri, si può, al pensarci, immaginare il disastro emotivo che da 10 giorni incombe su questo winner compulsivo. Un dolore che nessuno potrebbe curargli, neanche il suo più caro amico. Ammesso che un vero amico ce l’abbia, poi.
Foto di M. H. da Pixabay