Il 19 luglio scorso, un drone Samad-3 modificato di fabbricazione iraniana, lanciato dagli Houti dallo Yemen, ha raggiunto Tel Aviv uccidendo un cittadino israeliano e ferendone altri. Secondo l’inchiesta dell’Aeronautica Militare Israeliana riportata da “The Times of Israel” il drone ha percorso circa 2.600 chilometri e sarebbe rimasto in volo per circa 16 ore. Dallo Yemen è volato a nord-ovest sopra il Mar Rosso, ha sorvolato l’Eritrea, il Sudan, l’Egitto ed è entrato nei cieli sopra il Mediterraneo; lì ha virato verso Israele, raggiungendo Tel Aviv da ovest, lungo una rotta normalmente percorsa da aerei dell’aviazione civile. Gli israeliani si attendono attacchi aerei da est da sud e da nord – dove sono collocati i Paesi nemici – ma non da ovest. Inoltre in quel momento gli israeliani erano sotto attacco da parte di un altro drone, proveniente dall’Iraq. Malgrado tutto, secondo l’aviazione israeliana, il drone che ha ucciso a Tel Aviv era stato tracciato – per ben sei minuti – ma non era stato identificato come un oggetto volante di tipo bellico: su un radar non è semplicissimo distinguere un drone da un piccolo aereo privato o da un uccello. Israele ha un formidabile schieramento anti-intrusione per quel che riguarda i missili, ma ora i droni rappresentano una novità in rapidissima evoluzione per tutti gli eserciti del mondo. Non è stata questa la prima volta in cui un drone è entrato nel territorio di Israele senza che i sistemi di allarme antiaereo entrassero in funzione e questo fa pensare che lo Stato ebraico sia ancora indietro nell’attività di ricerca e sviluppo per questo tipo di minaccia.
Più in generale, i droni rappresentano anche un grosso problema economico per chi deve intercettarli. Non è sempre evidente, quando si osserva un conflitto, il fatto che esiste un “economia dei mezzi impiegati”. Un ufficiale dell’artiglieria ucraina non darà mai l’autorizzazione ad usare un missile del sistema HIMARS per colpire un carro armato russo T-62, gli costerebbe troppo usare un missile di ultima generazione per colpire un Tank dei primi anni ’60, (i soldati attaccati dal tank dovranno cavarsela altrimenti). I droni a differenza dei missili non volano su traiettorie prevedibili e non emettono il calore intenso dei razzi, questo rende i sistemi anti-aerei tradizionali, immaginati appunto per contrastare attacchi missilistici, non ottimali. La soluzione rimane quindi quella di usare gli aerei da caccia per abbatterli, ma qui sorge il problema economico: un drone “Ababil”, che viene normalmente utilizzato dall’Hezbollah libanese, costa circa 5.000 dollari, un’ora di volo di un F-16 israeliano che spara un paio di missili costa intorno ai 50.000 dollari.
L’attacco aereo israeliano di sabato 20 luglio sul porto di Hodeida, nello Yemen controllato dagli Houti, rappresenta il record nella storia dell’aviazione israeliana in quanto a distanza percorsa per raggiungere e colpire un obiettivo. Lo squadrone da combattimento aereo con la Stella di Davide ha volato per 3.400 chilometri tra andata e ritorno sorvolando aree ostili: gli aerei che hanno compiuto l’attacco sono dunque stati riforniti in volo, un’operazione complessa nella situazione data. Non risulta che le difese anti-aeree degli Houti abbiano sentito arrivare i cacciabombardieri israeliani e, a questo proposito, non inganni il fatto che gli alleati dell’Iran nello Yemen abbiano il nome di una tribù, portino il turbante ed il pugnale infilato nella patta dei pantaloni: Teheran fornisce generosamente gli Houti di moderne installazioni anti-intrusione aerea. Ecco, appunto, l’Iran; la velocità e la prontezza con cui Israele ha saputo reagire all’attacco del drone Houti che ha colpito Tel Aviv, la profondità di penetrazione ed il pieno successo dell’operazione vanno ben al di là dell’azione tattica in sé. Teheran è avvertita sulla potenzialità deterrente israeliana in caso volesse intensificare il conflitto.
Il 15 luglio, in sordina, l’ultimo pattugliatore militare russo ha abbandonato la Penisola di Crimea. All’inizio dell’invasione la Crimea era stata pensata dai russi come la piattaforma aerea e navale dalla quale far piovere missili sull’Ucraina e minacciare Odessa. Secondo il Ministero della Difesa britannico, la flotta russa del Mar Nero è ora “funzionalmente inattiva”. A questo risultato hanno contribuito molto gli innovativi droni navali ucraini, ma anche il fatto che l’Esercito di Kyiv è autorizzato ad utilizzare le batterie missilistiche HIMARS a medio raggio sulla Crimea; queste batterie hanno in diverse occasioni abbattuto proprio i sistemi anti-aerei russi che avrebbero dovuto difendere la Penisola, quegli “S-400” sull’utilità del cui acquisto molti Stati, Turchia in primis, si staranno forse facendo delle domande. La vittoria ucraina nella Battaglia del Mar Nero dimostra che, se è sempre e comunque vero che non esiste l’arma miracolosa che cambia le sorti di una guerra, è pur vero che la superiorità tecnologica combinata gioca un ruolo rilevante nell’evoluzione di un conflitto.
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