Quando le donne si rivoltano contro le donne

Una storia di conflitti culturali e sociali: dall’Italia all’Iran, il grido silenzioso per la libertà individuale e il rispetto reciproco

Il 30 giugno, un episodio avvenuto su un treno regionale diretto a Milano ha profondamente scosso i passeggeri, rivelando tensioni latenti nella nostra società. Julianny Muniz, una donna di San Mauro Torinese di origini brasiliane, è stata oggetto di un feroce attacco verbale da parte di un’altra donna che indossava l’hijab. Questo evento, riportato dal giornale La Voce del Canavese, evidenzia come l’intolleranza possa attraversare le barriere culturali e religiose, dimostrando che l’odio può manifestarsi in molteplici forme.

Masih Alinejad, giornalista e attivista iraniana.

L’episodio sul treno evoca situazioni simili in altre parti del mondo islamico, dove le donne sono spesso al centro di polemiche e repressioni legate al loro abbigliamento. In Iran, ad esempio, la polizia morale arresta brutalmente donne che non indossano correttamente il veloMasih Alinejad, giornalista e attivista iraniana in esilio, ha documentato numerosi abusi, mostrando come le donne vengano trattate violentemente solo per il loro modo di vestirsi. Questi fatti, già di per sé scioccanti, rivelano una realtà ancora più inquietante: non solo gli uomini, ma anche alcune donne musulmane sono coinvolte nella repressione delle loro pari, perpetuando un ciclo di odio e violenza. Questo fenomeno di “donne che si rivoltano contro altre donne” è particolarmente preoccupante, poiché rappresenta una forma di intolleranza interna alla stessa comunità femminile.

Oriana Fallaci sosteneva che la cultura islamica, nella sua interpretazione più rigida, fosse intrinsecamente oppressiva verso le donne.

È praticamente impossibile non richiamare alla mente le parole della compianta Oriana Fallaci di fronte a tali soprusi. La sua critica impetuosa all’islamismo radicale risuona con forza in questi eventi, che avrebbero probabilmente confermato le sue peggiori paure. La Fallaci ha sempre sostenuto che la cultura islamica, nella sua interpretazione più rigida, sia intrinsecamente oppressiva verso le donne. E, molto probabilmente, non avrebbe esitato a denunciare con forza l’episodio del treno come un chiaro segnale dell’incapacità di alcune società di accettare la libertà individuale e il progresso sociale.

In Francia, la questione dell’hijab continua a essere controversa e divisiva. Vent’anni dopo l’introduzione del divieto di indossare l’hijab e altri simboli religiosi nelle scuole, il dibattito è ancora acceso. Il governo francese mantiene una posizione ferma sulla laicità, che si riflette anche nel recente divieto per le atlete francesi di indossare l’hijab durante i Giochi Olimpici di Parigi 2024. Questo divieto ha suscitato dibattiti intensi, sia all’interno del paese sia sulla scena internazionale, evidenziando come le politiche sull’abbigliamento femminile siano strettamente intrecciate con le questioni di identità culturale e diritti individuali.

Il 13 settembre Mahsa Amini venne arrestata dalla polizia morale a Teheran, con l’accusa di aver violato il rigido codice di abbigliamento della Repubblica islamica e il biasimo di essersi macchiata di “bad hijab”, l’uso improprio del velo. Tre giorni dopo, il 16 settembre, la giovane originaria di Saqqez, nel Kurdistan iraniano, morì in un ospedale della capitale.

Nel contesto iraniano, l’arresto delle donne per motivi legati al velo è ormai una triste normalità. La morte di Mahsa Amini, ad esempio, ha scatenato proteste di massa e una violenta repressione da parte delle autorità, evidenziando come il controllo sul corpo delle donne sia diventato un campo di battaglia politico e sociale in Iran. In Daghestan, invece, una regione a maggioranza musulmana in Russia, si assiste a un curioso sviluppo: il divieto del niqāb il quale, a differenza dell’hijab, lascia scoperti solo gli occhi, coprendo il capo e il resto del viso. Questo provvedimento, pur sollevando critiche, è giustificato con motivi di sicurezza. Questo esempio dimostra come le politiche sull’abbigliamento femminile possano variare drasticamente all’interno del mondo islamico, a seconda delle circostanze locali e delle autorità in carica.

Il capo del comitato investigativo russo, Alexander Bastrykin, ha chiesto il divieto totale di indossare il niqab nel paese in seguito agli attacchi terroristici della scorsa settimana in Daghestan, che secondo lui sono stati compiuti da “terroristi islamici”.

Quanto accaduto sul treno per Milano insieme alle situazioni in Iran, Francia e Daghestan ci ricordano l’importanza di promuovere il rispetto reciproco e la tolleranza. Julianny Muniz, su quel treno, ha deciso di non sporgere denuncia per non fomentare l’odio, e le sue parole risuonano come un invito alla moderazione e alla comprensione. In un mondo sempre più diviso, è cruciale lavorare per costruire ponti tra diverse culture e religioni, apprezzando il valore della diversità e impegnandosi a convivere pacificamente. La battaglia contro l’intolleranza e la violenza non può essere vinta solo a livello istituzionale, ma deve partire dalle azioni quotidiane di ciascuno di noi. Questo non significa “lasciar perdere”, ma piuttosto affrontare la situazione con un approccio più costruttivo e pacifico. Solo così possiamo sperare di costruire una società veramente inclusiva e rispettosa, dove episodi come quello accaduto sul quel treno diventino eccezioni piuttosto che la norma.

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