La scorsa settimana un articolo del Washington Post ha reso noto che l’amministrazione Biden si è offerta di fornire a Israele importanti informazioni con dettagli sui luoghi nei quali si nasconderebbero Yahya Sinwar e Mohammed Deif, i leader di Hamas a Gaza ma anche sui tunnel dell’organizzazione terrorista palestinese. Washington sarebbe disposta a fornire le informazioni a Israele in cambio del non intervento militare dell’IDF a Rafah, dove sono rimasti gli ultimi quattro battaglioni di Hamas.
Il “leak” ha inevitabilmente creato serio imbarazzo alla Casa Bianca, tanto che nella giornata di giovedì 9 maggio il portavoce del Consiglio di Sicurezza Nazionale, John Kirby, ha cercato di mettere una pezza alla vicenda, affermando che tali informazioni erano già state fornite a Israele:
“Potremmo anche, in effetti, aiutarli a prendere di mira i leader, incluso [il leader di Hamas Yahya] Sinwar, cosa che, francamente, stiamo facendo con gli israeliani su base continuativa”.
Pochi giorni prima era emersa un’altra notizia che almeno in teoria doveva rimanere riservata, sulla sospensione, su ordine di Biden, di un carico di bombe destinato a Israele, nel timore che venissero utilizzate a Rafah. Inizialmente si era parlato di bombe “pesanti” ad ampio raggio. Il 7 maggio, un articolo pubblicato su Politico rivelava però come Washington stesse bloccando anche i kit che convertono le bombe in armi intelligenti e le bombe di piccolo diametro che servono proprio, grazie alla loro precisione chirurgica, ad evitare vittime civili.
La questione è stata sollevata anche dal Prof. Alan Dershowitz che ha denunciato il fatto durante il suo “Dershow”.
Come se non bastasse, Biden ha persino affermato di essere pronto a mettere il veto se il Congresso dovesse approvare la consegna immediata del carico di armi a Israele. Tutto ciò, mentre nel frattempo Washington inviava al Congresso una notifica per estendere le deroghe alle sanzioni esistenti per Libano, Yemen e Qatar fino al 30 aprile 2025; curiosamente proprio i Paesi dove sono attivi Hezbollah e Huthi ( i primi due) e il principale Paese sponsor di Hamas (il Qatar).
Inoltre, all’inizio di questa settimana, hanno fatto molto discutere anche le affermazioni di Antony Blinken, sul fermare l’offensiva a Rafah “perché tanto, anche se Hamas dovesse essere sconfitta, resterebbero sacche di resistenza e Gaza sarebbe nel caos”. Le dichiarazioni sono state aspramente criticate da Aaron Cohen, esperto di guerra non-convenzionale e terrorismo, il quale ha invece spiegato ai microfoni di Fox News che l’unico modo per estirpare Hamas e fare in modo che non possa più rioccupare Gaza è proprio entrando a Rafah con le truppe di terra per stanare i terroristi.
Una serie di elementi che fanno emergere seri dubbio sull’operato di un’amministrazione Biden che sembra sempre più preoccupata dal fatto che Hamas possa essere sconfitta; un’amministrazione che cerca di frenare in tutti i modi Israele dal portare a termine la campagna militare per sradicare l’organizzazione terrorista responsabile del peggior pogrom contro gli ebrei dall’era della Shoah. Questo è chiaramente un enorme punto interrogativo considerato che, almeno sulla carta, Washington sarebbe il principale alleato di Israele. Risulta però altrettanto evidente come la questione non riguardi tanto gli Stati Uniti, quanto piuttosto alcuni degli uomini chiave che fanno parte dell’amministrazione Biden e che non sono altro che l’eredità degli anni a guida Obama. Tra questi, Jake Sullivan, Antony Blinken, Brett McGurk, e Susan Rice.
La politica estera mediorientale dell’era Obama è risultata disastrosa, con una totale apertura nei confronti di quell’islamismo politico della Fratellanza Musulmana, di cui Hamas ne è espressione palestinese, che ha gettato nel caos Egitto, Tunisia e Libia. Come dimenticare il discorso del giugno 2009 tenuto da Obama al Cairo, intitolato “Un nuovo inizio”, che fu il preludio a tutto ciò e alle cosiddette “Primavere Arabe” che di primaverile hanno però mostrato ben poco. In quell’occasione, l’amministrazione Obama chiese tra l’altro che fossero presenti una decina di massimi esponenti della Fratellanza, un segnale più che eloquente.
Del resto fu sempre Obama che, appena tre mesi dopo aver preso potere, si precipitò ad Ankara per fare un “endorsment” al partito islamista AKP di Erdogan, indicato dall’ex inquilino della Casa Bianca come “modello di democrazia” e “Islam moderato” in Medio Oriente e nel mondo. Sfortunatamente, ciò che è diventata la Turchia con il governo dell’AKP è sotto gli occhi di tutti e non a caso Erdogan ha recentemente più volte ribadito il suo totale sostegno a Hamas, indicando l’organizzazione terrorista palestinese come “legittima resistenza”.
Nel gennaio 2015, ben dopo la caduta del presidente islamista egiziano Mohamed Morsy, il Dipartimento di Stato americano ospitò una delegazione di leader legati ai Fratelli Musulmani, tra cui Walid el-Sharaby, membro del Consiglio rivoluzionario egiziano, Gamal Heshmat, Abdel Mawgoud al-Dardery (due anziani membri della Fratellanza) e Maha Azzam, presidente del Consiglio egiziano per la rivoluzione, organizzazione formata a Istanbul nel 2014 per contrastare Abdelfattah al-Sisi.
Come se ciò non bastasse, l’amministrazione Obama autorizzò anche l’invio di 1,7 miliardi di dollari in contanti al regime iraniano e liberò circa 100 miliardi di dollari in beni congelati, rafforzando così l’industria iraniana. Com’era prevedibile, Teheran ha utilizzato il denaro anche per rafforzare Hamas, gli Houthi, Hezbollah e le milizie sciite in Iraq e Siria.Sarà un caso che una settimana dopo l’attacco missilistico iraniano contro Israele dello scorso 13 aprile è emersa la notizia che Washington aveva ripreso negoziati indiretti con Teheran per la questione nucleare? Che tempismo. Insomma, forse la posizione sempre più ostile di Washington nei confronti di Israele, man mano che l’IDF si avvicina alla roccaforte di Hamas, non è tanto dovuta alla preoccupazione da parte di Biden di perdere i voti nel Michigan e in Minnesota, considerando anche il fatto che gli ebrei democratici hanno lanciato un chiaro monito ai Dem. Forse per comprendere le posizioni di Washington bisogna andare più a fondo ed esaminare chi tira le fila della politica estera di Biden e capire da quale area provengono.
@riproduzione riservata